Rigenerazione urbana: esempi e buone pratiche dall’Europa e dal mondo

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La Borda, progetto di Lacol, Barcellona

La trasformazione delle città passa sempre più attraverso gli interventi sull’esistente, per esempio la riqualificazione di aree dismesse ed edifici sottoutilizzati. Un fenomeno con luci e ombre che assume forme diverse a seconda del contesto e può portare alla sperimentazione di nuovi modi di abitare come all’esclusione di intere fasce della popolazione

Auspicata, discussa a tutti i livelli e spesso invocata come possibile panacea di tutti i mali che affliggono le periferie, la rigenerazione urbana è uno dei temi più caldi del presente. In effetti, viviamo in città sempre più dense – Milano è un buon esempio, con i suoi 106,7 chilometri quadrati di superficie cittadina già urbanizzata su un totale di 181,8 – dove diventa vitale “riciclare” ciò che è già stato costruito riconvertendo e riqualificando aree degradate o dismesse: fabbriche abbandonate, scali ferroviari in disuso, complessi di uffici non più funzionali… Il fenomeno non è certo nuovo, anzi si può dire che sia nato insieme alla città, poiché la metamorfosi dell’esistente è pratica comune fin dall’antichità e gli esempi storici non mancano, dalla Londra vittoriana alla Parigi del barone Haussmann. 

La rigenerazione urbana oggi va nella maggior parte dei casi a braccetto con la sostenibilità, e il recupero di strutture inutilizzate e spazi già edificati prevede l’uso di materiali eco-compatibili e di risorse energetiche rinnovabili. Esiste però un rovescio della medaglia: il rischio concreto che tali processi, generalmente attivati in zone periferiche poco attrattive da un punto di vista immobiliare, facciano salire rapidamente il valore di case e terreni spingendo le fasce più fragili della popolazione originaria verso l’esterno. Come mette in evidenza il sociologo Giovanni Semi, che nel suo ultimo libro Breve manuale per una gentrificazione carina (Mimesis) affronta la questione in maniera antifrastica, l’altra faccia della rigenerazione è “quell’insieme di territori di scarto, dove finiscono le espulsioni generate dalle rigenerazioni/gentrificazioni. Se crescono gli affitti o diminuiscono le abitazioni disponibili, dove vanno finire quelli che abitavano il territorio rigenerato?”. Quali requisiti deve avere, insomma, una rigenerazione urbana per essere buona e non semplicemente carina? “In realtà, dovremmo chiederci soprattutto per chi è buona”, spiega ancora Semi. “Se un territorio venisse riqualificato in modo tale da renderlo più economico, ricco di servizi e aperto ad usi e accessi da parte di tutti, allora lo considererei in maniera positiva”. Vediamo, allora, che cosa succede fuori dai confini italiani e quali sono le strategie adottate da alcune grandi città europee ed extraeuropee. 

 

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Henning Larsen, Faelledby, Copenhagen

Copenhagen, la prima della classe

La capitale danese è una delle città più all’avanguardia dal punto di vista della sostenibilità ambientale, da tempo ai primi posti delle classifiche dei centri urbani più “green” e “smart” e in procinto di diventare la prima città al mondo a zero emissioni. Tra i progetti più significativi degli ultimi anni c’è la riqualificazione del vecchio porto di Nordhavn, una delle aree storiche di Copenhagen, con caseggiati utilizzati dalle industrie di un tempo e oggi dismessi e approdi per le navi. Quest’area è stata trasformata radicalmente seguendo un masterplan dello studio COBE architects e oggi ospita un nuovo, vitale distretto cittadino che conserva il suo legame con il mare e gli elementi più riconoscibili dell’ex area portuale. Un altro esempio più recente è quello di Fælledby, partito nel 2019, che punta a riqualificare un’area precedentemente adibita a discarica non lontana dal centro di Copenhagen attraverso l’edificazione di un nuovo quartiere basato sulla convivenza armonica di abitanti e natura. Il quartiere tutto di legno progettato da Henning Larsen si propone di preservare il microclima e la fauna locale, per questo comprende numerosi spazi verdi e perfino rifugi per uccelli e pipistrelli, integrati nelle facciate degli edifici. 

Barcellona, la pioniera

Il cosiddetto “modello Barcellona” fa scuola dagli anni Novanta, soprattutto per quanto riguarda le politiche urbanistiche delle città di mare. Sempre a proposito di riqualificazione delle aree portuali, il suo waterfront è ancora oggi tra i casi più studiati e copiati. Qui, il progetto di rigenerazione urbana più celebrato (e ricompensato con il Premio Emergente del Mies van der Rohe Award nel 2022) è l’housing cooperativo di La Borda, nato poco prima dello scoppio della pandemia. Il recupero di un’area dismessa nel centro della città è stato interamente seguito dai 28 soci di una cooperativa che poi sono diventati gli abitanti del complesso e condividono una serie di attrezzature e di spazi. Un edificio passivo con abitanti attivi, caratterizzato da un design esemplare che si nutre di ispirazioni scandinave e dall’attenzione portata alle esigenze di chi lavora da casa, un aspetto che è stato molto apprezzato durante il lockdown.

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Battersea Power Station, Londra

Londra, tra rigenerazioni e spinte gentrificanti

Nella metropoli britannica la rigenerazione urbana si presenta con luci e ombre. Da un lato, il recupero di aree industriali dismesse è stato e continua a essere un importante volano di miglioramento territoriale, capace per esempio di cambiare completamente il volto dell’East End e della Lower Lea Valley. Dall’altro, il piano di rigenerazione urbana avviato in concomitanza con le Olimpiadi del 2012 ha visto il quasi totale azzeramento degli investimenti in edilizia popolare, un tempo molto importanti. Come riportano numerosi fonti, citate anche dal magazine Dezeen in un recente articolo, da allora oltre cento council houses, termine che indica le case popolari britanniche, sarebbero stati demoliti e sostituiti con complessi residenziali di lusso. Anche la riqualificazione e la riapertura della Battersea Power Station, completata nell’autunno del 2022, non ha provocato soltanto reazioni positive. Sulle pagine dell’autorevole Guardian, per esempio, il giornalista Oliver Wainwright si è chiesto se l’ex centrale termoelettrica, da poco trasformata in un centro polifunzionale con appartamenti, attrazioni per il tempo libero, un art-hotel e un campus Apple da oltre 46mila metri quadri, non fosse diventata “un parco giochi per ricchi”.

Singapore, la rivoluzione dei dati

La città-Stato asiatica, sensibile per natura e conformazione al problema della scarsità di spazio edificabile, è stata la prima a cogliere le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, e in particolare dal Metaverso. Il governo locale ha studiato uno strumento innovativo per la pianificazione di interventi urbanistici e ambientali: Virtual Singapore, un gemello digitale della città che combina le informazioni provenienti da sensori dislocati per la città con dati di diverse origini (mappe, fotografie, informazioni fornite dai cittadini…) e che può essere utile per testare nuove soluzioni misurandone gli effetti. La relativa esiguità del territorio della metropoli asiatica, che sorge su un’isola circondata da un arcipelago di isolette e non può espandersi, fa sì che molti progetti siano improntati sulla rigenerazione. Uno di questi, Gardens by the Bay, un grande complesso di tre parchi sorto su un’area bonificata, è diventato una frequentata attrazione turistica con i suoi enormi alberi artificiali pensati per fornire ombra durante il giorno e vestirsi di luci colorate e suoni la sera e la sua passerella panoramica sopraelevata a 22 metri da terra.