Una conversazione privata con John Pawson
Il celebre progettista britannico si racconta in occasione del nuovo volume edito da Phaidon. Con la firma di una penna d’eccezione: Deyan Sudjic.
John Pawson ama raccontarsi, e con questo siamo al suo libro numero ventitré. Phaidon ha pubblicato infatti John Pawson: Making Life Simpler, non una monografia dei lavori ma piuttosto la biografia del progettista inglese. Un libro che si legge inaspettatamente come un romanzo, scritto in modo godibile dalla penna raffinata Deyan Sudjic (i due sono amici da una vita), pieno di curiosità e aneddoti che descrivono l’architettura attraverso l’uomo.
«Mi è sempre piaciuto più scrivere dei miei progetti piuttosto che comunicarli visivamente. Chi li fotografa li vede a modo suo, con un angolo troppo personale», dice Pawson del repertorio di forme essenziali, spazi aperti e sereni, che col numero limitato di materiali sono la cifra di quello stile definito Minimalismo. Stile da lui interpretato in modo sublime, quintessenza dell’eleganza. Che sia una delle boutique per Calvin Klein o il complesso religioso Abbey of Our Lady of Nový Dvůr nella Repubblica Ceca (2004), il progettista settantaquattrenne, nominato Commander of the Order of the British Empire per il suo contributo al design e all’architettura, tratta sempre lo spazio con la stessa purezza, uguale dramma. Il portfolio Pawson spazia tra progetti come il The Jaffa Hotel & Residences in Israele (2018), le esclusive residenze private, le barche a vela e il Design Museum di Londra (2016). Architetture governate da luce e leggerezza, e forse non è un caso che in inglese si usi la stessa parola (light) per definire i due concetti. «Quando penso alla forma e all’atmosfera di un posto, in fondo alla mia mente tornano sempre le parole del poeta americano Walt Whitman: “Ogni momento di luce e buio è un miracolo”», ha affermato Pawson, il quale si racconta intimamente in un'intervista.
Deyan Sudjic (scrittore, fondatore della rivista Blueprint e direttore emerito del Design Museum, ndr), è venuto con l’idea di una biografia, il che mi ha sorpreso perché ritengo di non avere ancora finito quello che sto facendo. Ma è bello soffermarsi per un momento, prendersi una pausa per riflettere su cosa sia stato fatto sino ad ora. Come una disciplina, un modo per esplorare da dove venga questo lavoro. Anche se per me non rimane un mistero perché ci rivedo lo Yorkshire, i miei genitori, il Giappone e le altre influenze.
Sicuramente è meglio farlo prima che arrivi la propria fine, e la mia memoria è ancora buona almeno al 90%.
Oltre ai miei genitori e le mie compagne di vita, ovviamente, tra quelli significativi e formativi ricordo anche quello col designer giapponese Shiro Kuramata; e quello con Claudio Silvestrin, che ho incontrato più di 35 anni fa. L’incontro con lui è stato fortuito, breve e fondamentale. È stato sorprendente imbattermi in un luogo sperduto dell’Inghilterra in una persona che condividesse cosi appieno la mia visione.
Qualche tempo fa, stavo lavorando a un progetto per Kanye West, che era ospite nella mia casa in campagna. Lui affermava che dovessi farlo con Claudio Silvestrin, ma io ho ribadito che non ci parlavamo da più di 30 anni. Allora Kanye ha fatto una video call con Claudio, hanno parlato un po’ e poi ha allargato l’inquadratura coinvolgendo me. È stato un momento di sorpresa.
Da giovane ho avuto modo di investire nell’arte contemporanea, ma non mi consideravo un collezionista. Ho avuto anche dei Mao di Andy Warhol ma alla fine non mi sentivo a mio agio a possedere quelle opere e le ho rivendute.
Ci sono andato dopo tanto tempo con Calvin Klein mentre lavoravo per lui, sebbene Hester (van Royen, ndr), la mia compagna di allora, fosse la rappresentante europea di Judd. Calvin ne aveva abbastanza già solo dopo due ore, ha chiesto dei libri ed è andato via. Ho una foto di lui che parte con una ventina di volumi. Io sono rimasto per qualche giorno, per me era il posto più importante al mondo da visitare. È stato come raggiungere una meta, come arrivare alla fine alle piramidi.
Nella nostra casa la mia camera era appena in cima alle scale. Quando mia madre cucinava, il profumo dei cibi arrivava fino a sopra. Avevo quattro sorelle, ricordo che, man mano che uscivano di casa, mio padre abbatteva una parete e la mia camera diventava sempre più grande. Mia madre era una donna modesta anche se proveniva da una famiglia abbiente. Ricordo una moltitudine di gente al suo funerale, una partecipazione diffusa che mi ha fatto pensare incredulo che stessimo parlando proprio della mia di mamma.
L’architettura è si una forma d’arte ma molto pratica e funzionale. Con questo arrivano le restrizioni e, conseguentemente, i compromessi. Sono stato così fortunato da aver fatto in modo di evitare quegli aspetti. Da quando ho incontrato l’architettura ogni singolo momento della mia vita lavorativa è stato entusiasmante, senza un solo minuto di noia.
Non c’è niente nella lista che rimpiangerei. Non ho mi costruito un grattacielo, ma ritengo anche che non si dovrebbero fare i grattacieli: non sono sicuro che mi piacerebbe stare su nel cielo. Mi piace l’idea di pensare a un aeroporto, di progettare un ospedale o una stazione, ma credo siano progetti più di competenza di studi più grandi.
Provo a creare degli spazi in cui mi sento a mio agio, e spero che altri provino la stessa sensazione. È enormemente complesso creare semplicità e, se lo fai in modo giusto, l’atmosfera porta a un senso di calma. Spero di aver creato degli spazi in cui la gente si senta bene.
John Pawson: Making Life Simpler
di Deyan Sudjic
296 pagine con 230 illustrazioni a colori
304 × 238 mm