In ricordo di Robert Wilson

Robert WIlson

Robert Wilson - Ph. Davide Colombino

Il celebre artista americano ci ha lasciato all’età di 83 anni. Il Salone del Mobile.Milano ha avuto l'onore di collaborare con lui durante la 63a edizione, ospitando l’opera “Mother”, con musica di Arvo Pärt, al Museo della Pietà Rondanini – Castello Sforzesco, e durante la serata di apertura ufficiale al Teatro alla Scala con "The Night Before. Object Chairs Opera"

Universalmente conosciuto come Bob, Robert Wilson è stata una delle figure più radicali e poetiche del teatro contemporaneo. Nato nel 1941 a Waco, in Texas, ha attraversato più di sei decenni di sperimentazione con oltre 200 opere, lasciando un’impronta indelebile nel teatro, nell’opera, nelle arti visive, nel design, nell’architettura scenica e nella pedagogia artistica, contribuendo a trasformare il modo in cui percepiamo lo spazio, la luce, il tempo. La sua opera non ha mai riconosciuto confini tra le discipline: luce, spazio, gesto, oggetto e suono sono stati per lui strumenti di una scrittura visiva unitaria. Lui stesso era architetto, scultore, attore, pittore, light designer, coreografo, scenografo 

Formatosi in business administration e architettura tra l’Università del Texas e il Pratt Institute di New York (sarà assistente del celebre architetto Philip Johnson), la sua traiettoria ha preso forma nella metropoli americana, dove fonda, nei primi anni Sessanta, la Byrd Hoffman School of Byrds, un collettivo interdisciplinare che diventa un laboratorio di visioni a Soho (quando ancora era il quartiere reietto e industriale dove si trasferivano tutti gli artisti inclusa la Factory di Andy Warhol). Fin dagli inizi, il suo approccio rifiuta la narrazione lineare e il realismo psicologico.  

La scena, per Wilson, è uno spazio astratto, mentale, costruito. Considerato tra i padri fondatori del “Teatro-Immagine”, che in Italia aveva già messo radici con l’opera di Mario Ricci attorno al quale gravitavano figure come Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Giuseppe Bartolucci, fu fortemente influenzato dal teatro di Giorgio Strehler e Luchino Visconti. La consacrazione arriva negli anni Settanta con opere come Deafman Glance e, soprattutto, Einstein on the Beach (1976), composta con Philip Glass. Un’opera che rompe ogni schema tradizionale: niente trama, niente atti, niente arie. Solo visioni. “Se vado all’opera, voglio davvero ascoltare la musica. Chiudo gli occhi. La sfida è: come posso riuscire a tenere gli occhi aperti? Come può ciò che vedo aiutarmi ad ascoltare meglio?” ha dichiarato.  

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Il palcoscenico è diverso da ogni altro spazio. Detesto il naturalismo. Stare in scena è qualcosa di artificiale. Se provi a recitare in modo naturale, sembri finto. Ma se accetti che sia artificiale, allora diventa più naturale
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Nei suoi lavori, ogni elemento ha una funzione ritmica: la parola è suono, il gesto è struttura, la luce è attore. “Tutto quello che faccio è danza”, ha affermato. Il movimento, per lui, viene sempre prima del testo perché il testo non ha bisogno di ulteriori traduttori, sarebbe ridondante. “Creo i movimenti prima di lavorare al testo. Il movimento deve avere un suo ritmo, una sua struttura, deve reggersi da solo. Non deve seguire le parole”. In questo approccio, si intravede una critica profonda al linguaggio verbale: “Le parole possono essere limitanti. A volte non bastano per esprimere ciò che sentiamo davvero”. E soprattutto per lui solo i classici potevano resistere realmente al tempo.  

Il suo è un teatro dell’immagine, in cui ogni dettaglio è calibrato con precisione millimetrica ma dove gli attori, i costumisti gli scenografi hanno totale libertà espressiva. Non si tratta di rappresentare ma di evocare. Come accade nella Madama Butterfly diretta per l’Opéra di Parigi negli anni Novanta, dove il suicidio della protagonista è reso con un solo gesto: il dito indice che si abbassa lentamente. “Un gesto così piccolo è stato più grande di tutto quel teatro”, ricorderà in un’intervista.

Nel 2025, alla soglia degli ottantaquattro anni, Wilson ha offerto un testamento estetico e poetico al Salone del Mobile.Milano. Tre atti, tre visioni. Il primo, The Night Before – Objects, Chairs, Opera, in scena al Teatro alla Scala, è stato un viaggio lirico attraverso frammenti di cinque opere celebri (Traviata, Macbeth, Butterfly, Norma, Otello), con al centro una sedia-oggetto per ogni scena. “Ogni sedia può essere un tempio. Ogni oggetto può custodire una memoria. Ogni luce può essere una rivelazione”, ha dichiarato Wilson. 

Il secondo atto, Mother, installato nella sala della Pietà Rondanini di Michelangelo, è stato un momento di alta intensità spirituale. Un’installazione sonora e visiva con musiche di Arvo Pärt (Stabat Mater), scandita dalla luce come presenza sacra. Un rito contemporaneo sulla fragilità e l’incompiutezza, nato da una riflessione sull’origine e la fine. 

Il terzo momento, la partecipazione all’Euroluce International Lighting Forum, ha suggellato il suo ruolo di maestro della luce. “La luce non è decorazione. È architettura. È filosofia. È il principio fondante della scena”, ha affermato. Nel corso della sua carriera ha ricevuto i più importanti riconoscimenti internazionali: due premi Ubu, il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, il Praemium Imperiale nel 2023, numerose onorificenze accademiche e civili in Europa, negli Stati Uniti e in Asia. La sua influenza è visibile non solo nei linguaggi teatrali, ma anche nell’architettura, nel design di interni, nella curatela museale e nella pedagogia artistica. 

Wilson ha firmato opere gigantesche come The Life and Times of Joseph Stalin (sette ore) o KA MOUNTAIN (Iran, 1972), performance durata sette giorni, con oltre 700 partecipanti, distribuita sulle sette cime del monte Haft Tan a Shiraz. Il tempo, nella sua visione, è materia plastica. Può essere dilatato, rallentato, contemplato. Ma anche “Putting lightness into the work” è stata una sua sfida. La sua arte è rigorosa, ma sa essere anche tenera, ironica, quasi infantile: “Ha trasformato l’Odissea in una favola viva, piena di sensibilità bambina”, hanno dichiarato gli attori del suo spettacolo Odissey, co-prodotto dal National Theater of Greece e il Piccolo Teatro di Milano nel 2012-13.  

Nel suo percorso, ha incontrato e collaborato con artisti come Susan Sontag, Marina Abramović, Willem Dafoe, Tom Waits, Lucinda Childs. Quando la Abramović gli chiese di progettare il suo funerale per The Life and Death of Marina Abramović, lui rispose: “D’accordo, ma solo se è la prima scena”. Come dire: la fine non esiste, è solo un nuovo inizio scenico. Wilson ha studiato il teatro giapponese in viaggio con Sontag, si è ispirato all’arte bizantina e al manierismo. “Sono un manierista. Amo le forme, le contraddizioni, l’eccesso e il controllo”. Ha dichiarato che con i suoi attori cerca la massima precisione per arrivare a una libertà esplosiva. 

Il suo impatto è stato tale che Louis Aragon, poeta surrealista, scrisse nel 1971 dopo aver visto uno spettacolo: “Non ho mai visto niente di più bello da quando sono nato. Mai, mai nessuno spettacolo si è avvicinato a questo, perché è al tempo stesso la vita sveglia e la vita a occhi chiusi, la confusione tra la realtà quotidiana e la vita di ogni notte. La realtà si fonde col sogno. Supera tutto ciò che noi surrealisti avevamo sognato potesse venire dopo di noi.” 

La sua lezione, oggi più che mai, è preziosa: imparare a rallentare, a guardare con profondità, ma soprattutto imparare a fare silenzio e ad ascoltare con tutto il corpo. In cinese, l’ideogramma della parola “ascoltare” è formato da simboli che indicano le orecchie, gli occhi e il cuore. Nulla descrive meglio il lascito di Bob Wilson. 

31 luglio 2025
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