Michael Anastassiades
Il designer cipriota ci parla di poesia e umanità nel design, di luce, tecnologia e sostenibilità. E di cosa voglia dire progettare oggi.
C’è qualcosa di lieve e lirico nella produzione di Michael Anastassiades e, al contempo, netto e definito. Sia quando si tratti di luce, sia quando si tratti di arredo. La sua è una visione chiara del design, che pone in equilibrio forma e funzione e trasforma l’intera esperienza di un suo oggetto in una sorta di riflessione sul rapporto tra l’oggetto stesso, il contesto in cui è posto e l’uomo che ne usufruirà. Non a caso, hanno definito la sua progettualità un invito al dialogo, alla partecipazione e all’interazione. Un traguardo a cui arriva attraverso la pratica della sottrazione, una predilezione per il minimalismo che, tuttavia, dona una potenza evocativa e una vitalità inaspettata e coinvolgente a quanto disegna. D’altronde, dietro l’idea, per lui ci deve essere umanità e poesia. Contrario a un design usa e getta, che assecondi la moda e il gusto del momento, per Anastassiades creare significa produrre valore e, dunque, oggetti senza tempo, fatti per restare: questa la più alta forma di sostenibilità e di onestà che un oggetto possa avere.
Cipriota di nascita, londinese di adozione, ha studiato ingegneria civile presso l’Imperial College of Science, Technology and Medicine e ha conseguito un master in design industriale presso il Royal College of Art. Nel 1994 ha fondato il suo studio e nel 2007 ha lanciato il marchio omonimo. Molte le collaborazioni prestigiose e tante le sue opere presenti nelle collezioni permanenti del Museum Of Modern Art di New York, del Victoria and Albert Museum, del Crafts Council a Londra, del FRAC Centre a Orléans e del MAK a Vienna.
Pratica yoga e meditazione, e forse anche grazie a queste discipline affronta la progettazione esplorando nuovi percorsi, aprendosi a nuove idee, forme e materiali. Sempre con un approccio rispettoso ed olistico. Con lui abbiamo parlato di poesia e umanità nel design, di luce, di tecnologia smart e di sostenibilità. E di cosa voglia dire essere designer oggi.
Ho fondato il mio brand di prodotti per l’illuminazione nel 2007 in modo da poter realizzare la mia visione del design su scala industriale senza compromessi. È stata una scelta consapevole quella di concentrarmi sugli apparecchi luminosi, che mi hanno sempre attratto come oggetti e che mi sembravano più gestibili da produrre in virtù delle loro dimensioni. Nel 2011, sono stato invitato da Flos ad approfondire le mie idee su una produzione ancora più ampia e, insieme, ci siamo imbarcati per un lungo viaggio ancora in corso. Così, il mio nome è diventato sinonimo di ‘luce’. Herman Miller è stato il primo produttore di arredo ad offrirmi una collaborazione diversa, grazie al quale, oggi, sono impegnato in progetti di design a 360 gradi. Il mio brand, però, rimane la principale piattaforma attraverso la quale mi esprimo.
Ho trascorso la prima parte della mia carriera di designer mettendo in discussione il ruolo degli oggetti nella nostra vita quotidiana. Ho elaborato una serie di pezzi sperimentali che esplorano la dipendenza psicologica fra l’oggetto e l’utente. I mie primi design erano interattivi e la maggior parte di essi aveva parti elettroniche incorporate nel tentativo di rendere più evidente quel legame. Benché ora io sia più impegnato su oggetti prodotti a livello industriale, la cui funzione potrebbe apparire più banale, il rapporto fra l’oggetto e l’utente rimane una parte importante di questa mia espressione.
Il processo di “riduzione” che adotto mi permette di fare chiarezza su come io, personalmente, vedo gli oggetti. Mi piace che le cose siano semplici, c’è fin troppa complessità nel mondo in cui viviamo.
Recentemente ho fatto una mostra-rassegna a Nicosia, a Cipro, e ho presentato opere che coprono gli ultimi dodici anni della mia carriera. È stata una sorpresa anche per me scoprire quanto fosse difficile stabilire la cronologia attraverso il linguaggio dei diversi oggetti che occupavano lo stesso spazio. Oggi, ho molte più occasioni di approfondire le mie idee su una varietà di design e su scale diverse. Tengo molto alle diverse collaborazioni che mi vengono offerte.
Questa domanda mi ricorda il titolo di un progetto elaborato in collaborazione con Anthony Dunne e Fiona Raby nel 2004, Design for Fragile Personalities in Anxious Times. Si trattava di una proposta per oggetti terapeutici che ci aiutano a superare le ansie contemporanee. È sorprendente rendersi conto di quanto il progetto sia attuale nella situazione che stiamo vivendo oggi. In quanto creativo, trovo impossibile realizzare oggetti che siano completamente indipendenti dalle circostanze in cui sono progettati.
È importante non alienare le persone con l’uso non necessario della tecnologia, quindi cerco di renderla “invisibile”. Quanto alla sostenibilità, progetto degli oggetti per durare fino a quando qualunque tecnologia incorporata sia in grado di supportarli. Apprezzo i progetti che durano nel tempo, purché siano prodotti in condizioni sostenibili.
Al di là dell’obbligo che abbiamo di produrre oggetti utili, il nostro ruolo in qualità di creativi è quello di stimolare l’immaginazione. Tuttavia, ora, più che mai, abbiamo bisogno di riflettere e mettere in discussione l’esigenza di creare un’altra versione di un oggetto già esistente.
Il Salone del Mobile è sempre stata un’importante piattaforma di lancio per nuove idee. Sto lavorando su molteplici progetti per il mio brand, ma anche per altre collaborazioni esterne. Sto anche programmando una mostra all’ICA di Milano che coincida con le date della Manifestazione.