Intervista doppia. Michele De Lucchi e i Formafantasma
Sulla resilienza, l’ecologia, la disciplina e le nuove generazioni: Michele De Lucchi e Simone Farresin si confrontano sul ruolo olistico che il design dovrebbe avere per progettare un futuro sostenibile
Come l’architettura e il design possono ancora salvare il mondo? Qual è la relazione tra tecnologia e natura? Come l’insegnamento e il passaggio generazionale riusciranno a spingere oltre la disciplina del progetto?
Una profonda e straordinaria conversazione tra Michele De Lucchi e Simone Farresin di Formafantasma, con l’apporto di Davide Angeli, coordinatore del design di AMDL Circle, cerca di dare risposta ad alcuni tra i quesiti più urgenti della contemporaneità. Mettendo in discussione le convenzioni con empatia, positività e mente vigile, per puntare a un futuro che sia degno (e bello) di essere vissuto.
MDL. Mi piace il significato positivo di resilienza. È un concetto da perseguire con insistenza e determinazione, ma credo che non si tratti solo di rendere positiva la resistenza, bensì di favorire la trasformazione. La resilienza ha senso se legata alla nostra capacità di trasformarci, di adattarci alla tecnologica in continua evoluzione e, contemporaneamente, vivere in sintonia con il mondo. Ma la resilienza ha, anche e soprattutto, senso se accompagnata da una visione verso la quale andare, che sia meritevole di essere ricercata e perseguita.
Il tema non è solamente a resistere ma, come sempre ha fatto l’uomo, immaginarsi e ambire a qualcosa di più con spirito positivo, energia e piacere. Abbiamo grande bisogno di costruire visioni per il futuro. Perché vediamo come vengono superate facilmente dall’eccezionalità delle potenzialità che la tecnologia ci offre. Continuiamo a parlare di resilienza e fragilità ma puntiamo a qualcosa di più grande: un futuro che sia sostenibile e meritevole di essere vissuto.
SF. Concordo con Michele quando propone il sogno e l’immaginazione per creare un futuro nuovo e sono convinto che si possano fare anche delle rinunce per raggiungere questo obiettivo. Il design e l’architettura si sono concentrati troppo a lungo non tanto sui bisogni quanto sui desideri, importantissimi, certo, ma è fondamentale comprendere che stiamo vivendo una crisi climatica devastante.
Design e architettura contribuiscono sia alla nostra fragilità sia alla nostra resilienza, hanno concorso a molti dei problemi che stiamo affrontando. La pandemia ha dimostrato la fragilità delle città e la solitudine delle persone nei centri urbani. Oggi c’è bisogno di porsi in modo critico nei confronti della disciplina ma sono fiducioso che possa fare molto per risolvere i problemi dei cittadini. Sono le urgenze a spingerci oltre. Per questo viviamo un momento molto interessante.
SF. Ovviamente sì. Il progetto è un continuo processo di apprendimento e di cambiamento. Credo che ciò che ci ha spinto maggiormente in avanti sia il lavoro sulla disciplina stessa. Tante delle riflessioni e dei lavori che abbiamo affrontato sono proprio una presa di posizione rispetto alla disciplina del design perché ci siamo resi conto delle sue responsabilità e stiamo cercando di capire qual è la nostra posizione a riguardo.
I nostri primi lavori erano sicuramente molto più naif, più intuitivi e avevano molto di più a che vedere con una sperimentazione del materiale. Negli ultimi anni, invece, analizziamo più criticamente quello facciamo per essere sempre più auto-consapevoli.
MDL. Ciò che abbiamo fatto con le Earth Stations è domandarci come saranno i nostri clienti tra dieci anni e che cosa ci chiederanno, immaginandoci una direzione evolutiva che sia effettivamente possibile, sostenibile, saggia e che non ci metta in collisione con tutta la ricchezza del mondo attuale – e per ricchezza intendo quella umana, culturale, scientifica e tecnologica che permette di indirizzare la nostra energia in maniera positiva, ottimista, protopica.
Ci siamo lanciati in questi pensieri con spirito critico, consapevoli di presentare visioni non coerenti con l’ideologia imperante, ma capaci di prospettare un futuro positivo e aggregativo. Le Earth Stations rappresentano un domani fatto di interazioni, connessioni, relazioni tra discipline, tra mondo reale e virtuale, tra sapere che deriva dalla ricerca scientifica, fisica e chimica e quello che scaturisce dalla ricerca sull’uomo. Oggi abbiamo bisogno di sintesi, che è un processo di selezione: analizza posizioni diverse e le fa diventare una sola. Questa è la forza dell’uomo.
Con le Earth Stations abbiamo cercato di sintetizzare alcuni aspetti dell’evoluzione dell’architettura e degli spazi interni, ma anche dell’educazione, dell’artigianato, del nostro essere collettività. Abbiamo cercato di creare piccole comunità, consapevoli che se funzionano bene, probabilmente sarà più facile far funzionare anche quelle grandi, le società, le nazioni, i continenti, il mondo.
SF. È ancora troppo presto per dirlo ma sicuramente viaggeremo meno e sicuramente non più in modo schizofrenico e irresponsabile. Riguardo alla domanda sulla natura, considera quanto il termine stesso sia ambiguo. Ogni volta che cerchiamo di definirla, ci posizioniamo al di fuori di essa come esseri umani, e questo è uno degli errori principali del modo in cui sviluppiamo il pensiero ecologico.
Personalmente, sono molto più interessato alla vita che alla natura, è un concetto molto più complesso e tangibile su cui lavorare. Abbiamo provato sulla nostra pelle che cosa significhi una crisi climatica e ambientale e l’idea di antropocene è ora concreta: la pandemia l’ha resa chiara e tangibile. Spero che questo ci renda consapevoli che non possiamo più pensare al progetto come prima, che ci possa aiutare a costruire quella visione del futuro che è necessario costruire e che è diverso dal presente.
MDL. Sono cose diverse. Sono convinto che le due cose esistano, debbano esistere, non possono esistere separate, non possono non esistere. Non possiamo sceglierne una e andare solo in quella direzione. L’abbiamo scoperto con le Earth Stations: tutto è in stretta connessione.
C’è un aneddoto molto bello. Johannes Itten, docente al Bauhaus, il primo giorno di lezione chiedeva agli studenti di disegnare il colore che consideravano più brutto; poi prendeva tutti quegli schizzi, li metteva insieme e ne risultava sempre, inevitabilmente, una composizione meravigliosa. Uso questa metafora per dire che tutto è connesso ed è l’insieme a generare bellezza.
Il nostro compito come designer, architetti, progettisti di interni è combinare insieme le parti e capire quali combinazioni funzionano. Del resto, succede così anche in natura, la chimica è fatta da molecole, le molecole si combinano tra loro, gli atomi non esistono mai singoli ma in combinazione, la fisica quantistica ha dimostrato che i fotoni non possono stare isolati.
SF. Michele ha dato una risposta bellissima. Guardare le cose in modo relazionale ci può permettere di comprendere meglio quello che facciamo ma anche di renderci molto più consapevoli delle responsabilità che abbiamo.
SF. Sì, siamo assolutamente d’accordo, credo che ci sia una componente educativa non solo per gli altri, ma anche per se stessi nel progetto, perché si sa sempre da dove si parte ma non dove si arriva. È questo il bello del percorso progettuale: il dover amare anche quello che non si conosce.
Rispetto alla tua domanda non posso darti una risposta univoca perché i progetti che intraprendiamo sono molto diversi, però quello che stiamo cercando di esplorare con il nostro lavoro è in che modo la disciplina del design si possa interfacciare con i problemi contemporanei in modo generoso e aperto. I lavori a cui teniamo di più vengono da un desiderio personale, ma speriamo di poterli consegnare ad altri e che gli altri possano parteciparvi. In questo senso, la condivisione di tutto ciò che facciamo – dalla messa a punto di un pensiero alle ricerche tecniche realizzate per un progetto – è ciò a cui teniamo particolarmente.
Credo che nel design ci sia la necessità di mettere da parte un po’ l’autore, che ha pur sempre un ruolo fondamentale, per lasciare che altri partecipino al lavoro. Questo è esattamente il nostro approccio all’insegnamento. Ora siamo impegnati alla Design Academy di Eindhoven ed è proprio qui che possiamo portare avanti aspetti progettuali e di ricerca che, come Studio, non riusciamo ad affrontare per mancanza di tempo o di fondi o di esperienza. In tal senso il progetto, secondo noi, non è una questione individuale.
MDL. Mi piace molto quello che dice Simone, cioè che il design non è solo un mestiere per soddisfare i clienti, ma è un modo di affrontare il mondo. Credo che come stiano impostando l’insegnamento sia il modo più corretto. Purtroppo, mi sembra che, oggi, non si faccia mai a sufficienza riferimento alle grandi problematiche che stiamo vivendo. Oggi sembra tutto girare intorno alla sostenibilità, che però non vuol dire solo costruire case con i materiali più isolanti. Perché al suo interno possono viverci le persone più consumistiche di sempre…
SF. È esattamente questo il punto! Noi stiamo volutamente smettendo di usare il termine “sostenibilità” perché è talmente tanto utilizzato come strumento di marketing e come soluzione immediata che ha perso il suo significato originale. Preferiamo, invece, parlare di ecologia – che non ha niente a che fare con la sostenibilità. Significa guardare gli organismi nelle loro interazioni e relazioni. L’ecologia ci chiede di elaborare un pensiero completamente diverso da quello che abbiamo costruito fino a ora. E questo è estremamente eccitante. È un’opportunità di fare e pensare in modo davvero nuovo.
Per esempio, i ragazzi che stiamo seguendo a Eindhoven lavoreranno per progettare un luogo in cui reintrodurre la fauna selvatica per cercare di capire in che modo il design si possa preoccupare anche dei bisogni di creature che non siano gli esseri umani.
MDL. I primi a dover andare a scuola adesso sono quelli come me. C’è talmente tanto da disimparare per fare un po’ di spazio agli strumenti e alle potenzialità di oggi. Circle si fonda proprio sulla trasmissione generazionale, per cui lo studio non è più una struttura gerarchica ma, al contrario, permette di intrecciare le singole sensibilità e conoscenze. Abbiamo impiegato tanto a trovare questo nome perché volevamo un termine che esprimesse interazione e integrazione.
SF. Quando abbiamo cominciato a pensare alla dimensione del design all’interno del problema ecologico ci siamo inevitabilmente scontrati con la durata delle cose che costruiamo, che è irrilevante rispetto alla vita del pianeta. I cambiamenti reali non avvengono in una generazione. Possiamo fare pochissimo nell’arco di una vita, e mi rendo conto che il nostro pensiero è sempre più sofisticato di quello che si finisce per fare. Se si sta cercando di capire qualcosa, non necessariamente la si può o la si deve insegnare. Lavorare insieme ad altri può essere un’occasione incredibile per costruire ponti tra generazioni.
DA. L’idea su cui si fonda Circle è proprio il passaggio generazionale. Abbiamo la responsabilità di 40 anni di storia preziosa e in costante evoluzione, il lavoro di Michele, dalle architetture radicali del 1979 alle Earth Stations di oggi. Un lavoro che ha sempre fatto da apripista nell’evoluzione del progetto. La nostra responsabilità è mantenere quell’approccio e quell’apertura. E potremo farlo solamente attraverso una transizione culturale, da ciò che è autorialità a ciò che è collettivo. Circle vuole essere un luogo di conversazione, dove l’architetto “tiene insieme” tutte le specializzazioni del progetto e coinvolge altre discipline, quelle umanistiche, per esempio, che hanno come oggetto lo studio dell’uomo. Ed è in questa conversazione che c’è la possibilità di inventare qualcosa di nuovo.
DA. Per esempio all’arte. Fra qualche mese inaugureremo il Novartis Pavilion, edificio con cui l’azienda farmaceutica ha deciso di aprirsi alla collettività, ospitando la mostra Wonders of Medicine. Per noi è una grande soddisfazione creare aperture. La facciata – digitale! – di questo padiglione verrà costantemente riprogettata da digital artist di diverse provenienze ed esperienze. Per cui la forma della nostra architettura sarà data dal contributo di questi artisti e si evolverà e trasformerà in funzione di quello che saranno i cambiamenti in quest’ambito specifico. Ecco un esempio di come aprirsi a discipline altre può apportare un valore diverso all’architettura sia dal punto di vista simbolico sia dal punto di vista dell’esperienza dello spazio.
MDL. La componente più importante è la narrativa, nel senso che tutto quello che si fa che non è esprimibile a parole, non è raccontabile, svanisce velocemente. L’ingrediente segreto è il significato positivo e la diffusione della speranza. Abbiamo tante cose da imparare ma anche tante possibilità di rendere il mondo migliore. L’oggi è veramente incredibile e quanto mai appassionante: la pandemia ci ha offerto un’occasione strepitosa per ricominciare bene, dare un nuovo inizio.
SF. Noi, con i social, abbiamo un rapporto di amore-odio. Sono una grande opportunità, ci permettono di raggiungere un sacco di persone senza dover viaggiare troppo, perché, in equilibrio tra Olanda e Italia, siamo abbastanza isolati. D’altro canto, abbiamo cominciato a utilizzare Instagram solo qualche anno fa e come archivio dello studio, non come strumento di promozione, o luogo dove è possibile creare narrative.
Ultimamente, abbiamo ridisegnato il nostro website nel modo che crediamo più pertinente possibile, ossia cercando di inserire informazioni esaustive e, quindi, privilegiando più il testo che l’immagine. Ci siamo preoccuparti dell’infrastruttura digitale, che, al contrario, è reale e pesante e abbiamo optato per una strategia che lo rendesse il più responsabile possibile. Credo che per i designer di oggi i nuovi sistemi di comunicazione siano un’opportunità unica perché sradicano il rapporto un po’ rigido e antiquato tra aziende e progettisti. Oggi, infatti, i designer hanno grandi possibilità di farsi vedere e sentire rispetto al passato, ristabilendo una diversa gerarchia di potere.