Francesco Meda: "Il mio design? Non parto mai da una forma predefinita"
Un design mirato ai servizi e meno vincolato alle tendenze. Questa la filosofia del designer milanese, che esplora anche arte-design e autoproduzione. Con un particolare approccio verso la materia.
Per il suo senso visionario del contemporaneo e la passione per la storia del design, nel 2020 viene nominato direttore creativo del marchio Acerbis, insieme al designer spagnolo David Lopez Quincoces.
Classe 1984, dopo gli studi in Disegno Industriale allo IED di Milano, dove nasce, si trasferisce a Londra. Qui, per due anni, fa pratica negli studi di Sebastian Bergne e di Ross Lovegrove. Ritornato poi nella sua città natale, inizia a collaborare con Alberto Meda, suo padre, a progetti per Kartell e Caimi Brevetti.
Parallelamente si dedica a esplorare l’arte-design con altre aziende e gallerie come Nilufar e Rossana Orlandi a Milano, Mint a Londra e Schoeni Art Gallery a Hong Kong. Sempre a Hong Kong, presso i grandi magazzini Lane Crawford espone la collezione Orme Cinesi, poi presentata nel 2012-13 alla Schoeni Art Gallery in occasione dell’Hong Kong Art Fair.
Nel 2013 avvia un percorso di autoproduzione realizzando lampade LED, tavoli di marmo (il suo materiale preferito), panchine e gioielli in 3D. Questi ultimi, insieme alle lampade Bridge, fanno parte della collezione del Triennale Design Museum.
Ancora nel 2013 disegna, con Alberto Meda, il pannello acustico Flap per Caimi Brevetti che vince il German Design Award 2015, il Design Europa Award e il Compasso d’oro 2016. Sempre per Caimi Brevetti nel 2016 riceve il Best of NeoCon Silver Award per il sistema fonoassorbente modulare Sipario. Premiato anche con il Wallpaper Design Award nel 2019 per la seduta in frassino Woody di Molteni & C.
Tratto distintivo: un particolare approccio verso la materia filtrato da un linguaggio fluido ed essenziale.
Mi auguro che ci sia una maggiore sensibilità da parte di aziende e progettisti nello sviluppare prodotti che rispondano maggiormente a delle esigenze reali e che utilizzino dei processi produttivi, considerando che alcuni materiali non sono infiniti. Un design mirato ai servizi e meno vincolato a prodotti che seguono delle “tendenze”. Oggetti di qualità e duraturi nel tempo. Sono molto contrario alla logica del “fast fashion o fast design”.
Definirei il mio studio e il futuro come una “bottega rinascimentale digitalizzata”. Oggi lo studio è condiviso da me e mio papà. Abbiamo logiche di bottega per quanto riguarda il “trasferimento del sapere”, ma anche un’attitudine fortemente contemporanea nella scelta di innovare grazie all’utilizzo di tecnologie come stampanti e scanner 3D e software parametrici che ci permettono di analizzare ogni singolo componente del processo progettuale.
Lavorare nello studio con mio padre è stato sicuramente una fortuna, perché quando sono arrivato nel 2008 aveva sempre lavorato da solo. I primi anni ho lavorato come assistente. È stato come un master accelerato!
La nostra realtà è simile a una “bottega”, c’è un trasferimento di conoscenze. Oggi lavoriamo ognuno ai propri lavori e ogni tanto firmiamo dei progetti insieme.
Lo scambio è molto stimolante perché in questo modo mio padre ha la possibilità di guardare il mondo attraverso gli occhi di un giovane. Il rapporto lavorativo tra padre e figlio è sempre molto delicato, ma alla base c’è il rispetto e la generosità di un papà che non è mai stato ingombrante, ma molto diretto, sincero e di grande stimolo.
Londra è stata un’esperienza molto formativa perché mi ha permesso di vedere due realtà ben distinte. Sebastian Bergne aveva uno studio molto piccolo, eravamo due collaboratori e lavoravamo su progetti molto diversi tra loro. Progettavamo per grandi marchi, ma allo stesso tempo Sebastian è stato uno dei primi designer a portare avanti la filosofia dell’autoproduzione.
Questa realtà mi è servita per capire come realizzare un prodotto senza l’aiuto di un’azienda. Progettavamo, facevamo prototipi, cercavamo i fornitori, producevamo dei piccoli quantitativi e, infine, dovevamo occuparci della parte comunicativa e distributiva. È stata un’esperienza a 360° per capire la vita e il ciclo produttivo di un oggetto.
Da Ross Lovegrove lo studio era molto strutturato, 12-15 collaboratori, e lavoravamo con i brand più importanti. Si spaziava da progetti visionari per quegli anni: concept di veicoli alimentati da pannelli solari, turbine eoliche, lampade con la tecnologia Oled, etc. Era un laboratorio di innovazione e Ross ci stimolava sempre ad alzare il livello di sperimentazione. È stata un’esperienza molto significativa anche a livello umano perché ho imparato a lavorare in team con persone di culture diverse.
Ho deciso di tornare a Milano perché ho chiesto a mio padre (che aveva sempre lavorato da solo) se voleva un assistente! Era una grande opportunità di crescita e, per mio papà, anche un’opportunità di scambio e confronto, dato che avrei introdotto il disegno 3D imparato a Londra.
Grazie al suo carattere abbiamo instaurato una relazione basata sul rispetto reciproco e questa attitudine ha fatto sì che siamo nello stesso spazio ancora oggi. Ognuno con i suoi clienti ma spesso in lavori a 4 mani!
Mi affascinava utilizzare un materiale così nobile, pesante e fragile allo stesso tempo. Ho deciso di ricavare lo sgabello “Pigreco” da un blocco con il taglio diamantato. Ho scoperto che l’azienda con cui lavoravo, Henraux, leader nel settore dei rivestimenti, produceva numerosi scarti. Ho deciso quindi di creare un blocco formato da tanti marmi, un sandwich di layer. L’oggetto risultante ha generato un’estetica nuova e inaspettata. Affascinato dalle colorazioni di questi marmi e dal lavoro con le lastre ho deciso di progettare dei tavoli cercando di essere attento alle esigenze attuali dei clienti. Non potevo creare tavoli pesanti, inamovibili e non smontabili, così ho deciso di dividere la lastra in due – per questo il nome “Split” – e unirle tra loro con un profilo di ottone che ne denuncia la divisione. La struttura metallica di sostegno permette di fissare gambe e lastre in loco.
Non parto mai da una forma predefinita perché credo che il progetto si concretizzi strada facendo attraverso i vincoli del materiale impiegato e le tecnologie utilizzate. Cerco sempre di impiegare il minor materiale possibile e questo approccio ne determina un’estetica “calma” che non “urli”. L’aspetto delle relazioni tra le componenti è un tema molto importante perché determina un’attenzione ai dettagli e alle unioni in maniera organica. La natura è l’esempio estremo dell’integrazione elegante tra le parti.
Quando penso a un prodotto, devo avere un approccio flessibile alle tante sfaccettature che può avere e ai suoi molteplici utilizzi. Si cerca sempre più di realizzare un prodotto che permetta una flessibilità sia dal punto di vista aziendale, sia di quello del cliente finale. La flessibilità, insieme alla customizzazione, consente configurazioni materiche diverse che generano estetiche differenti, come in Sistema XY: più calda utilizzando il legno, più industriale e tecnica con l’impiego dell’inox.
Nel caso specifico, da parte di Dada il brief era preciso: progettare un sistema attrezzato da poter utilizzare su tutte le linee di cucine presenti a catalogo. La difficoltà principale è stata quella di pensare a un prodotto funzionale e trasversale, realizzato attraverso un metodo costruttivo semplice e non invasivo, in maniera tale da poter convivere con le cucine esistenti. Sono partito dall’idea di offrire una nuova tipologia di utilizzo della cucina grazie all’integrazione di differenti accessori.
Il Sistema XY si sviluppa in verticale e in orizzontale attraverso diversi profili estrusi che permettono lo scorrimento di mensole (verticalmente) e di estrusi orizzontali, che accolgono le vasche attrezzate. È stato complesso realizzare i numerosi estrusi perché integrano più funzioni e non devono risultare invasivi, ma allo stesso tempo devono essere elementi strutturali per reggere l’intero sistema. Ho lavorato molto con l’ufficio tecnico per definire dettagli estetici e costruttivi. Difficoltoso è stato anche risolvere l’assemblaggio in maniera semplice, perché il sistema è composto da numerosi componenti che devono “dialogare” tra loro come in una macchina.
Il rapporto con il mio papà, progettista-ingegnere meccanico, è sicuramente la parte più stimolante perché ho accesso a una conoscenza specifica per quanto riguarda le tecnologie e i processi, ma soprattutto mi ha aiutato molto ad avere una visione del progetto costruttiva e non formale.
Un esempio di lavoro a 4 mani è Flap (pannello fonoassorbente) in cui si integrano due approcci diversi – il mio più grafico e il suo più tecnico – nel risolvere lo snodo che permette al pannello di essere orientato. L’insieme dei diversi approcci ha dato vita a un prodotto fortemente decorativo, ma allo stesso tempo tecnico-funzionale che risolve il problema dell’inquinamento acustico all’interno degli ambienti come ristoranti, scuole, ospedali e altri luoghi pubblici. Questo è un esempio di progetto a 4 mani, dove lo scambio generazionale è un valore aggiunto in tutti i sensi!