supersalone: la parola agli studenti
Sostenibilità, consapevolezza, etica, innovazione sono le parole d’ordine di The Lost Graduation Show, all’interno di Supersalone: una mostra che raccoglie 170 progetti di studenti provenienti da 48 scuole e selezionati da Anniina Koivu. Abbiamo chiesto a 10 di loro di raccontarci i loro lavori
Sono attenti alla sostenibilità, prima di tutto, alle possibilità di innovare prodotti e processi grazie alle ultime tecnologie. Sono pronti a riflettere su nuovi temi come i diritti di chi è sottoposto a riconoscimento facciale automatico. Sono legati alla propria identità e ai territori di origine. Soprattutto, sono contenti di essere su un palcoscenico internazionale dove scambiare idee e visioni dopo il lungo periodo pandemico di isolamento. Sono i giovani designer selezionati da Anniina Koivu nella mostra The Lost Graduation Show, all’interno di Supersalone: 170 progetti di studenti diplomati tra il 2020 e il 2021, provenienti da 48 scuole di design di 22 Paesi.
«È un ampio ritratto collettivo della scena globale del design contemporaneo», spiega la curatrice: «Sono impaziente di vedere abbandonata la nazionalità o l’origine geografica di un progetto (o designer). Con più interessi e preoccupazioni comuni, le vecchie etichette come design italiano, scandinavo, olandese diventano sfumate: il design sta diventando sempre più centrato sull’uomo (o sull’ambiente) e universale».
Koivu sottolinea l’attualità dei temi emersi dal lavoro degli studenti: «In tutte le proposte, il tema comune è stata la consapevolezza collettiva che i materiali devono essere trattati con attenzione e rispetto, evitando gli eccessi».
Che cosa potrebbe imparare l’industria da questo? «Il lusso di studiare design è la libertà. I limiti sono importanti per il lavoro di un designer, eppure una scuola offre uno spazio libero per ripensare i materiali esistenti, giocare con le forme e speculare sui futuri modelli di produzione. Come per ogni nuova idea, i progetti hanno bisogno di tempo e spazio per la sperimentazione. Alla fine arriva il confronto con la realtà, che è molto regolamentata e a volte limitante. L’industria potrebbe agevolare le idee inattese e concedere un po’ più di tempo e spazio per consentire ai designer di fare ciò che sanno fare meglio: pensare fuori dagli schemi e reimmaginare il design per scopi futuri», risponde Koivu.
Intanto, abbiamo chiesto a 10 studenti di raccontarci i loro lavori.
Robin Bourgeois, 24 anni
École des Arts Décoratifs, Parigi
«À hauteur d’assise (“all’altezza del sedile”) è un progetto nato tre anni fa quando ho visitato un’abbazia cistercense vicino alla casa dei miei genitori: un momento che mi ha toccato, dall’architettura al mobilio alla quotidianità dei monaci. Ho cominciato a studiare l’argomento, facendo ritiri in numerose abbazie in varie parti della Francia, nonostante io non sia cristiano, per provare la vita cistercense. Da queste esperienze uniche nascono sei oggetti che trasmettono nel nostro tempo l’eredità di questi monaci: fare con poco, costruire perché duri, vivere nella natura, fare attenzione a ciò che ci circonda, contemplare».
Daniel López Velasco e Ithzel Libertad Cerón López, 24 anni
Tecnológico de Monterrey, Città del Messico
«Helix è una siringa ipodermica pre-riempita di medicinali o vaccini: abbiamo cominciato a progettarla durante il lockdown partendo dall’osservazione del fatto che le misure sanitarie in atto in tutto il mondo stavano iniziando a generare una quantità allarmante di rifiuti biologici. E se un vaccino o una cura fossero stati sviluppati avrebbero a loro volta prodotto altri involucri, scatole, siringhe, aghi. Così ci siamo ispirati alle siringhe di morfina della Seconda Guerra mondiale, con la parte pieghevole, e alla tecnica degli origami. Questo progetto rappresenta per noi l’importanza del design nel trovare soluzioni pratiche di grande impatto sociale, economico ed ecologico».
Rashi Sharma, 24 anni
National Institute of Design (NID), Ahmedabad
«Embroidered Memories è un progetto che mi sta molto a cuore. Parla dei tempi della Partizione tra Pakistan e India, quando lo Stato del Punjab venne diviso in due. Avevo 11 anni quando a casa cominciai a chiedere da dove venissimo. Come Punjabi a Mumbai sapevo che non eravamo di lì. I miei genitori mi raccontarono che i miei nonni paterni e i miei antenati erano di Rawalpindi e Lahore, città ora in Pakistan. Mio nonno dovette fuggire da adolescente da Rawalpindi senza la sua famiglia. Avendo perso i miei nonni all’età di 6 anni, non avevo mai avuto l’occasione di chiedere la loro storia. Al mio terzo anno al NID, durante un corso di Craft Documentation, ho scoperto la tecnica di cucito Khes, propria del Punjab, che come quella di ricamo Phulkari venne influenzata dalla Partizione. La ricerca sulla mia identità ha piantato i semi per questo progetto. Gli scialli Phulkari sono diventati il mezzo per esprimere storie di migranti, insieme al Khes».
Amna Yandarbin, 26 anni
VCUarts Qatar, Doha
«Yolkkh racconta visivamente la storia di mia nonna, mia madre e mia attraverso la guerra, la morte, il trauma, ma anche la speranza, l’empowerment, la crescita. Volevo farlo attraverso il tessuto, in particolare le sciarpe del mio popolo, i Noxci, chiamati dai russi ceceni. È un progetto che vuol dire molto per me e per la mia gente perché dà loro una voce e introduce la loro identità a un mondo che per la maggior parte la ignora».