Il “sistema design” secondo Deyan Sudjic

salonemilano, Design museum Pawson

Design museum by John Pawson and OMA - Ph. Luc Boegly and Sergio Grazia

Abbiamo intervistato il giornalista e curatore britannico, che sarà tra i protagonisti della serie di Talk organizzati durante il Salone del Mobile.Milano 2024

Deyan Sudjic è uno dei più importanti autori, giornalisti e curatori di architettura e design a livello mondiale. Laureato in architettura, non ha mai esercitato la professione del progettista, in quanto sostiene che “non sono abbastanza bravo”. È comunque la persona ideale a cui rivolgersi per comprendere il complesso e stratificato universo del design, e tutto il sistema che ruota attorno ad esso. Nel corso della sua carriera, ha creato e sperimentato con media e piattaforme diverse e complementari, che gli hanno permesso di parlare di design a una platea ampia e variegata, composta non solo di accademici e studiosi, ma anche di un grande pubblico di appassionati. Al Salone del Mobile.Milano 2024, giovedì 18 aprile, sarà protagonista di un dialogo con l’architetto inglese John Pawson nell'ambito del programma di Talk e Tavole Rotonde “Drafting Futures. Conversations about Next Perspectives” curato da Annalisa Rosso

Cominciamo parlando di uno dei suoi incarichi più importanti e duraturi. La direzione del Design Museum dal 2006 al 2020. Che ruolo ha l’istituzione museale in una metropoli come Londra?

Lo scopo del Design Museum è quello di offrire una piattaforma che possa avere più punti di vista. Il museo vuole dimostrare che il design non è solo per gli specialisti. Quindi, gli argomenti, il linguaggio e le tecniche di esposizione sono pensati per toccare più persone possibile. Sono sempre stato interessato al modello del National Theatre di Londra, un edificio degli anni Settanta che ha al centro un grande spazio sociale con caffetteria, ristorante e aree comuni. Ha tre teatri diversi, ognuno progettato con un approccio diverso. Per me i musei deve fare qualcosa di simile: in modo che si possa vedere una mostra per capire la storia del design, ma allo stesso tempo esposizioni di realtà nuove e sperimentali, o ancora approfondimenti su figure mitiche come Le Corbusier o Charlotte Perriand. Il design è composto da tribù diverse: le persone interessate al computer design e al design digitale non sono necessariamente le stesse che guardano ai classici di Charles Eames o Gio Ponti. Dar forma a un buon programma significa far incrociare queste persone e fare in modo che possano approfondire anche qualcosa di inaspettato.

Una mostra o progetto a cui è particolarmente legato?

Ho avuto la fortuna di lavorare a tantissime mostre: a Istanbul, a Seul, a Copenaghen… è stato un vero privilegio. Mi è piaciuto molto fare la Biennale Architettura a Venezia nel 2002. La abbiamo intitolata “Next” perché era una disamina di progetti reali che analizzava “in concreto, l’ambiente che vivremo nel prossimo futuro”. Un altro progetto a cui sono legato è stata la mia ultima mostra al Design Museum, dedicata a Stanley Kubrick. Abbiamo potuto studiare come realizzava fisicamente i suoi film (lavorava ancora in analogico), come creava i suoi mondi, la sua fascinazione per l’architettura e il design… È stata una mostra che ha permesso a un vasto pubblico di capire come viene realizzato un progetto, un aspetto che per me ha molta rilevanza per tutte le forme del design.

Ormai non ha senso considerare il design come una disciplina unica. Come ha già puntualizzato, ci sono vari rami e varie tribù. Ci sono delle prospettive o delle nicchie a cui è particolarmente interessato ultimamente?

Spesso si parla di design come se fosse una cosa, un oggetto. In realtà il design è un metodo. È una sintesi che mette insieme più prospettive, ed è questo che lo rende interessante. Il design è riflesso di come si realizzano i progetti – nel senso più ampio del termine. Racconta chi li fa, chi li usa e come li usa. Per questo al Design Museum abbiamo provato a mostrare gli oggetti da tre prospettive: quella del Designer, quella del Maker e quella dell’User. Siamo in un’epoca in cui gli oggetti sono meno presenti rispetto a qualche decennio fa. Molti sono stati sostituiti da programmi o applicazioni. Eppure, le persone hanno ancora voglia di possedere oggetti in grando di portare con sé ricordi o riflettere la loro personalità. Ci troviamo in un momento paradossale, in cui abbiamo la sensazione che non dovremmo creare troppi nuovi oggetti, non dovremmo mai demolire un’architettura a meno che non ci siano delle ottime ragioni. Alcuni designer riescono a incarnare pienamente questo paradosso. Penso allo studio Formafantasma, che esplora il dark side della produzione industriale e le degenerazioni dei sistemi produttivi, ma che allo stesso tempo ha la capacità di realizzare anche arredi raffinati ed eleganti. Oggi nessuno è puro e tutti portiamo dentro la necessità di una riflessione critica e un desiderio di consumo.  

salonemilano, deyan sudjic

Deyan Sudjic - Ph. Muhsin Akgün

È il momento di parlare un po’ di Milano e del Salone del Mobile. Che rapporto ha con la città e con la Manifestazione?

Ci vado quasi ogni anno dal 1977, quando era ancora in città, ed era ancora a settembre. È sempre stato un luogo essenziale in cui andare. Può essere estenuante. Può essere difficile capire cosa sia per chi lo visita per la prima volta. A volte sembra un mostro. A volte appare come rivelazione speciale. Per me è straordinario il fatto che è riuscito a rimanere attuale non essendo mai compiacente e capendo che il mondo intorno a noi sta cambiando. Quindi per rimanere rilevante deve cambiare anche il Salone. È interessante guardare a ciò che ha reso Milano un centro così importante per il design globale: sicuramente il fatto che in Brianza ci sia una concentrazione di produttori, e a Milano un folto gruppo di riviste e aziende legate al mondo della comunicazione. Dipende anche dal fatto che ci sono numerosi designer da tutto il mondo, e diverse scuole. Penso anche a quando credevamo che il Covid avrebbe reso obsoleta la concentrazione di così tante persone. Non è stato così: le persone hanno ancora bisogno di incontrarsi fisicamente. Ci sono ancora tanti interrogativi aperti e questioni da affrontare: certe volte anche il troppo successo può essere un problema, e un’affluenza eccessiva di persone essere un problema allo stesso modo di un’affluenza scarsa…

Al programma di Talk del Salone 2024, dal titolo “Drafting Futures. Conversations about Next Perspectives”, troveremo una conversazione tra lei e l’architetto John Pawson. Uno degli argomenti di discussione sarà senza dubbio la biografia che lei ha scritto: John Pawson. Making life simpler. Com’è stato ripercorrere la storia di un amico di lunga data?

Tornare a parlare con una persona con cui hai lavorato per anni è molto interessante, perché rifletti su aspetti del suo lavoro a cui non avevi pensato prima. Le persone che non lo conoscono credono che John sia una specie di fanatico religioso, che crede nell’eliminazione di tutto ciò che riguarda una casa. È un assunto completamente sbagliato. John non è una persona che impone la sua visione di ciò che l’architettura dovrebbe essere. Ascolta e cerca di immaginare come sarà la vita negli spazi che disegna. Volevo quindi evidenziare questo aspetto. Inoltre, ha lavorato per clienti molto interessanti: da Calvin Klein a Bruce Chatwin a Ian Schrager. Ha lavorato con un altro maestro come Shiro Kuramata. Ha avuto una vita piena, ben vissuta e davvero interessante da documentare.

21 marzo 2024