Atang Tshikare e l’arte di raccontare storie con il design
Il creativo sudafricano Atang Tshikare racconta come dà vita a storie e miti culturali attraverso le sue opere e perché la creatività viene prima della funzionalità
Le storie sono, comprensibilmente, il cuore dell’opera dell’artista multidisciplinare Atang Tshikare. Infatti, si tratta di racconti che da tempo vengono tramandati, scambiati e lasciati in eredità dagli abitanti del suo paese natale, il Sudafrica, tra cui anche i suoi antenati Tswana. Ispirandosi a questi racconti, Tshikare, che risiede a Città del Capo, ha creato un portfolio di opere fantastiche e biomorfe che si collocano al punto di incontro tra l’opera d’arte e l’elemento di arredo. Queste opere, che superano i limiti delle categorie, hanno suscitato grande entusiasmo e interesse in tutto il mondo e sono state esposte nel corso di mostre come PAD London, Design Days Dubai e ovviamente la Investec Cape Town Art Fair. Tshikare, che nel 2010 ha fondato lo studio Zabalazaa Designs, ha inoltre collaborato con moltissimi brand, tra cui Adidas Originals, Belvedere Vodka, MTV Base e BMW. Ho avuto modo di incontrarlo per parlare del suo processo creativo, delle prossime opere e per chiedergli perché ritiene che i suoi lavori rappresentino, nel loro complesso, un racconto unico in quanto collegati da “una grande narrazione”.
Ci sono parecchi progetti in corso, ma ti parlerò di quelli che vedranno la luce per primi. A febbraio, qui a Città del Capo si terrà una mostra d’arte a cui parteciperò e per la quale sto preparando un paio di pezzi. Ad aprile parteciperò a una collettiva a Soho, New York, con due opere, una delle quali è qua fuori ed è molto grande, alta circa 1,80m, e parecchio pesante. Per trasportarla ci vogliono 8/10 persone! Il secondo pezzo a cui sto lavorando è in bronzo, ma non è ancora finito.
In genere cerco di usare sempre il materiale che ho deciso all’inizio. Quando mi viene un’idea so già che il materiale perfetto per realizzarla, in genere, sarà legno, bronzo o pietra. Non mi distacco troppo da questi materiali, perché nel tempo ho imparato molte cose rispetto ai vari pesi, alle texture e a che cosa ciascun materiale può tollerare.
In generale lavoro secondo una o due modalità. Se l’idea mi sembra già ben definita in partenza, comincio direttamente da una maquette in argilla sulla quale lavoro fino a ottenere la forma definitiva. Se invece l’idea è più estrema, o non del tutto definita, inizio da uno schizzo che mi permette di vederne il potenziale. Ho moltissime idee che mi piace da sempre fermare su carta, su un quaderno. Il mio quaderno è un po’ un dizionario delle mie opere.
Ci sono spesso delle idee che tornano da me, e questo processo mi ricorda l’apprendimento di una lingua nuova. Non si crea per forza qualcosa di nuovo, si pensa piuttosto a una “parola” e da una “parola” se ne può creare un’altra - in questo caso un’espressione concreta della creatività.
Ho iniziato a collaborare con persone [in Sudafrica] che lavorano con materiali che fanno parte della loro tradizione; anche quando scelgo di utilizzare materiali che conosco, cerco sempre di collaborare con qualcuno che sappia utilizzare i materiali locali della zona in cui vive e di collegare questo con il mio contributo. Per esempio, quando lavoro con le donne Xhosa, fanno grande uso delle perline, mentre le donne del Lesotho usano la paglia. Quest’anno spero di poter visitare il Ghana e il Mozambico, perché mi incuriosisce molto la varietà di tecniche di tessitura e di lavorazione dell’argilla tipica di questi paesi. Questo è uno dei modi in cui vorrei ampliare i miei orizzonti.
A dire il vero, no. Anni fa lavoravo per una galleria d’arte e ricordo che avevano cercato di spingermi in quella direzione, ma io ho preferito essere fedele a me stesso e al mio lavoro. Sono sempre stato un artista; prima di cimentarmi con la scultura, mi dedicavo già al disegno e alla pittura. Quindi, una volta passato alla scultura, per me si trattava sempre di lavorare su un’opera e su qualcosa da raccontare attraverso quell’opera d’arte, mentre l’aspetto della funzionalità risulta secondario. Le mie opere parlano di qualcosa che mi è vicino a livello spirituale, culturale o di tradizione, e per questo il mio lavoro diventa parte integrante di un linguaggio che racconta chi sono e da dove vengo. La funzionalità, in questo senso, ricopre un ruolo marginale. Ho sempre moltissime idee che riesco a trasmettere attraverso un singolo oggetto, quindi generalmente evito di impormi dei limiti; in questo modo, continuo ad andare oltre e cercare il nuovo.
Sono un creativo a tutto tondo. Non ne parlo molto, ma mi dedico anche alla musica. Potrei prendere in mano qualunque strumento, o quasi, ed essere in grado di suonarlo bene nel giro di qualche tempo. In passato ho suonato il pianoforte e il clarinetto, e sono un appassionato collezionista di dischi. Mio padre suona il sassofono e l’armonica. La musica, dunque, è parte integrante del mio lavoro. Inoltre, il mio modo di pensare somiglia a quello di uno scrittore. Per esempio, l’anno scorso ho organizzato uno spettacolo per il primo compleanno di mio figlio. Desideravo celebrare la sua vita, e ho pensato di farlo attraverso un racconto. Mia moglie, che attualmente segue un programma di dottorato presso l’UCT (University of Cape Town), mi ha aiutato a perfezionarlo. Se guardiamo tutte le mie opere dal 2015 a oggi, vediamo che fanno tutte parte di un’unica, ampia narrazione.
Inoltre, sono abbastanza bravo come direttore artistico, grazie alla mia esperienza nell’alta moda qui in Sudafrica; ho fatto perfino il DJ negli anni dell’università, e all’epoca mi piaceva organizzare, insieme a mia moglie e ad alcuni amici, eventi a cui invitavamo skater, giocatori di basket, poeti, MC/rapper e breakdancer. Ne organizzavamo uno ogni quattro mesi e abbiamo continuato per sei anni. Non mi piace darmi nessun tipo di etichetta, perché quando ci provo mi sembra di limitare il mio movimento e la mia ricerca a quell’unica direzione.
Vedo il mio lavoro su più livelli contemporaneamente e su una scala più ampia. Quando ero solo avevo in mente una sola mostra per volta, mentre ora, con mio figlio, creo sempre una trilogia, di libri, di giocattoli, ecc. Penso a come un disegno possa diventare animazione, video musicale o film. Oppure penso a come alcuni dei miei disegni possano diventare parte di una collezione di abbigliamento. Il mio modo di pensare ora prevede più livelli, perché vedo qualcosa che deve essere in grado di sopravvivermi; in pratica, penso alle generazioni future.
Sì e no: non dalla sua componente urbana, certamente di più dalla natura. A un’estremità di Città del Capo c’è il mare, all’altra ci sono le montagne. Uscendo dalla città si può entrare in contatto profondo con la natura. Io vivo a 30 secondi di distanza dall’oceano, mi piace andarci quasi ogni mattina e fare un tuffo in acqua o una corsetta sul lungomare, per me è una sorta di terapia. Le parti di Città del Capo che amo sono quelle che danno una sensazione di libertà e non l’impressione di essere in città. Per me, la cultura è nel luogo da cui provengo, dove vivono i miei familiari e dove le persone parlano la mia stessa lingua. Qui ascolto storie e le adotto; le persone con cui lavoro vengono dalle zone più disparate dell’Africa, dal Lesotho, dallo Zimbabwe, dallo Zambia, ecc. Ognuno di loro ha un’identità diversa, così parliamo di tradizioni, di ciò che sono abituati a mangiare, di che cosa fanno, ecc… e tutto questo è per me grande fonte di ispirazione ed entra a far parte delle mie opere.