Alvar Aaltissimo ironizza sulla follia immobiliare di Milano
Annunci immaginari e surreali. Edita da Corraini e con un saggio di Cino Zucchi, grande fan dell’ironico architetto social, una guida per cercare (assurdamente) casa a Milano.
Ogni disciplina costruisce nel tempo un proprio lessico; la sua notazione standardizzata permette di ridurre il problema dell’espressione a quello della combinazione tra parti elementari. Se gli atlanti illustrati per insegnare la grammatica del disegno agli alunni delle scuole medie promettono di farci disegnare un gatto in cinque passaggi, la tavola di Jean-Nicolas-Louis Durand Marche à suivre dans la composition d’un projet quelconque ci insegna come, attraverso il suo metodo di assemblaggio su di una griglia cartesiana di un classico “Lego” fatto di muri, colonne, architravi, si possa arrivare al disegno di “qualsivoglia edificio” [1].
Il classicismo ha quindi un grande vantaggio su ogni altro metodo progettuale: come i manuali che dovrebbero insegnare ai rappresentanti di commercio il vestire bene “all’inglese” attraverso semplici regole – la cravatta intonata col calzino, mai mischiare righe e tartan – esso dona a una persona di media intelligenza e di scarso talento gli strumenti per produrre un’architettura corretta.
Sembrerebbe quindi che – come un pezzo degli scacchi che contiene in maniera implicita le possibilità dei movimenti a esso concessi sulla scacchiera – un lessico verbale o grafico contenga già in maniera implicita le regole del suo assemblaggio in organismi linguistici o edilizi. In maniera non dissimile dalla “grammatica generativa” formalizzata da Durand nei Precis (quasi una trasposizione architettonica del metodo propugnato dalla Grammatica di Port-Royal [2]), negli anni ottanta William Mitchell aveva analizzato le piante delle ville di Andrea Palladio per estrapolarne i criteri compositivi e affidare così alle prime macchine intelligenti l’incarico di produrne altre simili [3].
Il lessico della rappresentazione architettonica in pianta – con i suoi muri sezionati in linea spessa, le sue porte, le sue piastrelle, i sanitari e i fornelli spesso riferiti alle norme UNI – appare quindi la parte più solida e oggettiva di una disciplina i cui rami evolutivi – come nella “Cambrian explosion” documentata nei fossili della Burgess Shale [4] – hanno generato molti esseri bizzarri, talvolta mostruosi.
Nell’affrontare l’Esame di Stato per l’abilitazione alla Professione di Architetto – la sola Laurea in Architettura, con la sua presunta intersezione tra pressoché tutte le branche dello scibile umano, ancora non la consente – ogni candidato sa bene che l’unica certezza per passarlo è quella di disegnare in poche ore una pianta ordinata e rappresentata in maniera chiara con tutti i simboli convenzionali al posto giusto, e di riempire il disegno con riferimenti scritti a leggi e regolamenti che attestino la sua competenza tecnico-legale. È anche noto come ogni aspirante architetto che cerchi di esprimere qualsivoglia pretesa di Kunstwollen o Weltanschauung nella prova scritta dell’Esame di Stato sia destinato a sicura rovina. L’Esame di Stato seleziona innanzitutto i fanti e i mozzi del grande esercito della Procedura Edilizia, verificando quanto bene sappiano rifarsi il letto od oliare la canna della loro arma principale, la Pianta Catastale protocollabile con adeguata firma e carta da bollo. Questa stessa pianta, gentilmente abbellita da appendiabiti nell’armadio e vasi di piante indefinite su tavolini e terrazzo, è quella che dona oggettività e serietà alla proposta di compravendita immobiliare, pilastro di ogni stabilità dell’organismo sociale: la casa sognata – o forse solo la casa che ci possiamo permettere – affittabile o acquistabile in comode rate possibilmente coperte da mutuo.
Qualche anno fa Marc Augé – l’etnografo passato alla storia per aver coniato il fortunato termine di “non-luogo”, poi clonato in innumerevoli esemplari dai giornalisti-papera – aveva provato nel suo Ville e tenute. Etnologia della casa di campagna a indagare sui valori sociali, esistenziali ed estetici proiettati dai francesi sulle case d’abitazione attraverso una lettura attenta degli annunci immobiliari per la compravendita di case [5]. La pianta di una casa sta alle fotografie che ne rappresentano gli ambienti come una Tomografia Assiale Computerizzata sta ai possibili ritratti fatti a una persona: la sua pretesa misurabilità e modalità di rappresentazione “scientifica” costituisce il fondamento del necessario punto di fiducia che si deve formare tra le due parti alla presenza del notaio e possibilmente di un tecnico, sia esso un architetto, un ingegnere edile o un geometra. Una pianta, e non una foto, viene spesso allegata ai documenti legali che attestano la transazione. La rappresentazione in pianta dovrebbe quindi rendere oggettive tutte le proprietà di un appartamento, e donare parametri certi agli elementi puramente soggettivi che inevitabilmente ognuno di noi proietta sullo spazio dell’abitazione. Le piante sono misurabili e comparabili; come gli animali impagliati o gli insetti trafitti da uno spillo nei vecchi musei, tutte insieme potrebbero essere ordinate in una grande “storia naturale” di un prodotto artificiale, la casa.
Joseph Goebbels affermava che l’intenzione della propaganda non era quella di convincere la gente della bontà delle idee nazionalsocialiste, ma quella di dare vita a un linguaggio che, una volta usato dalle persone, avrebbe impedito ogni pensiero divergente da quello inteso. La rappresentazione in pianta, fondamento ideologico del mondo immobiliare, azzera ogni differenza tra architettura e edilizia, rendendo la prima un optional decorativo, un rivestimento cangiante come un capo di vestiario più o meno seducente.
Tutto ciò, fino al sorriso sovversivo di Alvar Aaltissimo.
Se le forme standard della rappresentazione planimetrica ci avevano temporaneamente rassicurato sul rapporto tra architettura e il resto del mondo (e delle norme e costumi che regolano lo stesso), Alvar Aaltissimo manomette i valori sacri della disciplina. Lo fa a cominciare dalla scelta del proprio nom de plume – o meglio nom de lapis –, ottenuto attraverso l’aggiunta di una desinenza superlativa che mette uno dei suoi santi patroni sul Letto di Procuste. “Combattere il sistema dall’interno” sembrerebbe il suo slogan. L’adesione apparentemente ingenua al linguaggio semplice – grafico e testuale – degli annunci immobiliari contiene un potere deflagrante proprio in virtù del suo preteso “realismo”, un’apparente normalità che fa da paravento ad attentati dinamitardi.
In un suo video, la ex cantante dei 10,000 Maniacs Natalie Merchant spiega le proprie intenzioni artistiche dietro al nome e al contenuto di una canzone dal titolo intenzionalmente “banale” – Life Is Sweet –, e per spiegarle cita l’artista visiva Jenny Holzer, che attraverso la ripetizione ossessiva e fuori contesto di frasi convenzionali e abusate ne rivela i sensi nascosti [6].
Al contrario di quello che hanno spesso teorizzato le avanguardie storiche, la manipolazione intelligente del materiale consegnatoci da un costume condiviso ha spesso esiti molto più profondi e duraturi della sua reinvenzione.
“Non è un caso che i Romani non fossero in grado di inventare un nuovo ordine di colonne, un nuovo ornamento. Per far questo erano già troppo progrediti. Essi hanno derivato tutto questo dai Greci e lo hanno adattato ai loro scopi. […] I Greci sprecarono la loro forza inventiva negli ordini delle colonne, i Romani applicarono la loro nel progettare gli edifici. E chi può risolvere grandi problemi di progettazione non pensa a nuove modanature” [7]. L’affermazione apodittica di Adolf Loos potrebbe essere allargata a una serie estesa di operazioni di natura molto diversa tra loro, e tuttavia accomunate da un pensiero comune. Non servono parole nuove per descrivere nuove idee e sentimenti, poiché l’uso di una lingua condivisa – se non aprisse un dibattito senza fine, potremmo persino chiamarla “classica” – può avvalersi di strategie di manipolazione della stessa che ne disvelano il vantaggio fondamentale: un minimo spostamento di forma produce al suo interno un effetto ben più efficace, preciso e spesso dirompente di quello ottenuto dall’azzeramento del lessico. Cézanne ha rivoluzionato l’arte dipingendo arance e bottiglie.
Come un bambino impertinente, Alvar Aaltissimo ricombina i simboli grafici che definiscono la pianta di una casa usando tutti i tropi classici che negli anni sessanta il “Groupe μ” di Liegi aveva riletto in chiave strutturalista nella sua Rhétorique générale [8]: anacoluto, anafora, anastrofe, aposiopesi, asindeto, chiasmo, dialefe, ellissi, enallage, endiadi, enjambement, epanalessi, epifora, iperbato, iperbole, litote, omoteleuto, ossimoro, paronomasia, pleonasmo, poliptoto, polisindeto, prolessi, sinalefe, sineddoche generalizzante, sineddoche particolareggiante, zeugma sono tutti dispositivi e figure trasposte dalla dimensione testuale a quella grafica per dar vita a creature bizzarre; mostri talvolta divertenti, talvolta inquietanti o terribili come quelli che popolavano la mente e i quadri di Hieronymus Bosch, composti da parti anatomiche riconoscibili – in questo caso, gli organi e le membra della “casa di civile abitazione” – assemblate con intenti non certo canonici.
Può un’arte “edificante” – non solo “costruttiva” (quella condivisa con l’amico-nemico ingegnere) ma anche capace di creare luoghi abitabili, incastonati nell’etimologia orgogliosa dell’edificare come aedes facere, fare le case insomma – pietrificare e dare forma durevole a ironia e sarcasmo?
Nella realtà forse no; o meglio, chi ci ha provato ha spesso combinato disastri di pietra e mattoni. Ma, mentre cerchiamo ancora di capire se l’architettura sia un’arte “autografica” o “allografica” e se i suoi strumenti rientrino tra gli “score, sketch or script” descritti da Nelson Goodman [9], come la libertà della rappresentazione grafica ha nei secoli generato utopie e distopie memorabili – dal Cenotafio di Newton di Étienne-Louis Boullée alla Walking City degli Archigram – così ammette con l’apparentemente inoffensiva satira di Alvar Aaltissimo.
Tra il 1932 il 1933 Heath Robinson disegnò una serie di vignette umoristiche che illustravano dispositivi tanto ingegnosi quanto immaginari che avrebbero permesso di vivere negli spazi limitati dei nuovi appartamenti urbani, poi raccolti nel libro pubblicato insieme a K.R.B. Browne How to Live in a Flat [10].
L’insieme dei disegni attiva in maniera più o meno esplicita una critica al contempo arguta e feroce non solo al concetto dell’Existenzminimum ormai irradiatosi in tutta Europa, ma anche agli arredi in tubolare di acciaio curvato che si erano fatti vessilli di una Sachlichkeit dietro lo schermo solo apparentemente neutro del “progetto funzionalista” (qualche anno prima Josef Frank, in un capitolo del suo bizzarro e profetico discorso tenuto al Werkbund dal titolo Architektur als Symbol, aveva accusato la sedia in tubolare curvato di non costituire un progetto quanto una visione del mondo) [11]. Dopo la scelta di Stanley Kubrick di utilizzare opere di architettura brutalista come sfondo delle gesta di Alex e i suoi Drughi in A Clockwork Orange [12] o il testo distopico della canzone Get ’Em Out by Friday nell’album Foxtrot dei Genesis nella loro fase progressive [13], si potrebbe pur affermare che l’ideologia dell’architettura funzionalista non ha mai davvero trovato il consenso della lower middle class inglese; ma altrettanto arguta e a tratti feroce contro la città e la casa modernista è la satira operata da Jacques Tati nei suoi due piccoli capolavori quasi muti, Mon Oncle e Playtime, dove il regista e attore si era quasi svenato per costruire un gigantesco modello al vero di un brano di città contemporanea ribattezzato “Tativille” [14].
Nel suo recente libro Caricature architettoniche, Gabriele Neri legge con estremo rigore il complesso rapporto tra i manifesti e i proclami delle teorie architettoniche degli ultimi centocinquanta anni e un vero e proprio “controcanto” operato dalla satira nelle sue forme testuali e grafiche [15]. E se alcune di queste vignette potrebbero apparire come l’esito scontato di un’endemica “resistenza al cambiamento” che ogni innovazione genera come azione uguale e contraria, molte di esse riescono a scardinare gli assunti un po’ troppo semplici alla base dell’espansione territoriale del primo e secondo dopoguerra e i loro esiti formali.
In una recente ricerca sulle condizioni abitative nelle metropoli europee esposta all’interno della mostra “At Home 20.20” al MAXXI di Roma, i numeri che accompagnano le foto degli spazi abitati da studenti e giovani professionisti a Parigi mettono i brividi: monolocali da 8 o 12 metri quadri dove sono compressi tutti gli arredi, armadi e utensili necessari per rispondere ai bisogni di un abitante temporaneo della nuova metropoli.
Le piante surreali, o meglio iperreali (in un mondo di “realtà aumentata”, i disegni di Alvar Aaltissimo sembrano perseguire scientemente l’ideale di una “realtà diminuita”) che illustrano gli appartamenti immaginari offerti in locazione o vendita da una Milano in eterna attesa di farsi ammettere nel club delle grandi capitali europee diventano così un elemento di riflessione critica sulla dimensione abitativa della metropoli. Le didascalie che le accompagnano sono l’elemento cardine della loro interpretazione, e costituiscono la chiave per decifrare il crittogramma grafico e la trappola di una piramide inesplorata dove il sancta sanctorum (l’abitante virtuale i cui attributi fisici e morali dovrebbero necessariamente essere plasmati sulle caratteristiche molto specifiche dell’ambiente rappresentato) viene perennemente nascosto alla nostra vista e lasciato alla nostra immaginazione.
Nel loro Cronache di Bustos Domecq, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares si sono divertiti a portare all’estremo lo stile letterario e le griglie interpretative di un immaginario critico d’arte impegnato a dare senso alle sperimentazioni più estreme degli artisti contemporanei; in uno dei finti saggi, chiamato “Sboccia un’arte”, Bustos Domecq descrive il progressivo distacco del progetto d’architettura dalla servitù di un suo supposto peccato originale, quello di dover rispondere a un “bisogno”. Definitivamente affrancati da esso, gli “inabitabili” – edifici nei quali addirittura non si può nemmeno entrare, ma vanno contemplati dall’esterno – possono finalmente candidarsi come statement architettonici “puri”, dove la composizione tra le parti è regolata da matrici autonome [16].
Non è forse un caso che lo stile grafico apparentemente naïf delle piante illustrate in queste pagine assomigli in maniera impressionante a quello delle rappresentazioni grafiche di alcune delle figure più interessanti della giovane cultura architettonica europea: Dogma, Piovenefabi, Matilde Cassani, YellowOffice/Francesca Benedetto, Salottobuono/Matteo Ghidoni, Baukuh e molti altri. Arthur C. Danto avrebbe chiamato l’essenza di questa operazione “the transfiguration of the commonplace”, la trasfigurazione del luogo comune, cioè l’opera di straniamento più o meno pronunciato messa in atto dal moderno sugli oggetti e sulle icone della società di massa [17]. In questo senso, si potrebbe arrivare a dire che queste piante ci fanno guardare al mondo dell’architettura domestica come attraverso uno specchio la cui immagine invertita o deformata ne disveli e distrugga gli automatismi.
Through the Looking-Glass? [18] Un riferimento alla logica spietata e proprio per questo dissacrante di Lewis Carroll è forse a questo punto l’unica maniera di mettere fine al montaggio quasi surreale di autori, pensieri e citazioni affastellati in questo “saggio d’occasione” scritto dal più grande fan di Alvar Aaltissimo: il vostro aff.mo Cino Zucchi.
NOTE
[1] Jean-Nicolas-Louis Durand, Nouveau précis des leçons d’architecture: données à l’École impériale polytechnique, Fantin, Paris 1813.
[2] Antoine Arnauld e Claude Lancelot, Grammaire générale et raisonnée contenant les fondemens de l’art de parler, expliqués d’une manière Claire et naturelle..., Pierre Le Petit, Paris 1660, trad. it. Grammatica e logica di Port-Royal, a cura di Raffaele Simone, Ubaldini, Roma 1969.
[3] William J. Mitchell, The Logic of Architecture: Design, Computation, and Cognition, MIT Press, Cambridge 1990.
[4] La Burgess Shale è un deposito di fossili in Canada – che documenta la cosiddetta “Esplosione evolutiva del Cambriano” avvenuta circa cinquecento milioni di anni fa – dove si sono conservate anche le parti molli degli organismi; svariati reperti, come quelli della cosiddetta Hallucigenia o dell’Acinocricus, hanno per anni sfidato i tentativi di catalogazione degli studiosi per la loro morfologia non riconducibile a nessuna delle specie animali conosciute.
[5] Marc Augé, Domaines et châteaux, Seuil, Paris 1989, trad. it. di Adriana Soldati, Ville e tenute. Etnologia della casa di campagna, Elèuthera, Milano 1994.
[6] Natalie Merchant, VH1 Storytellers, DVD, registrazione del 14 settembre 1998 al Manhattan Center, New York, Warner Bros Music, 2005.
[7] Adolf Loos, Architektur, in “Der Sturm”, 42 (dicembre 1910), trad. it. di Sonia Gessner, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972.
[8] Groupe μ, Rhétorique générale, Larousse, collection Langue et langage, Paris 1970, II edizione Seuil, collection Points, Paris 1982.
[9] Nelson Goodman, Languages of Art, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1968, trad. it. I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 1976. Si veda il capitolo V.
[10] Heath Robinson, K. R. G. Browne, How to Live in a Flat, Hutchinson, London 1936. Sul tema dell’unità abitativa di una stanza, si veda anche Robin Middleton, The One-Room Apartment, in “AA Files”, 4 (July 1983), pp. 60-64, Architectural Association School of Architecture.
[11] Josef Frank, Architektur als Symbol: Elemente deutschen neuen Bauens, A. Schroll & Co., Wien 1930-31, trad. it. Architettura come simbolo, a cura di Hermann Czech, Zanichelli, Bologna 1986.
[12] Esistono svariati articoli che descrivono in dettaglio gli edifici e gli interni esistenti nella Greater London che sono stati usati da Kubrick come ambientazioni del film. La casa di Alex è situata nella Southmere Estate in Thamesmead.
[13] Genesis, Foxtrot, Charisma Records, 1972, terza traccia del lato A. “This is an announcement from Genetic Control/ It is my sad duty to inform you of a four foot restriction on Humanoid height (…)/ It’s said now that people will be shorter in height/ They can fit twice as many in the same building site/ They say it’s alright/ Beginning with the tenants of the town of Harlow/ In the interest of humanity, they’ve been told they must go/ Told they must go-go-go-go.”
[14] Jacques Tati, Mon Oncle (1958) e Playtime (1967). Sia Tati che la sua casa di produzione Specta Films entrarono in serissimi problemi finanziari per la costruzione della scenografia di quest’ultimo, un set che riproduceva un’intera città “modernista” dal nome Tativille. Sulla costruzione di Tativille vedi anche il documentario del 1965 Tativille-sur-Marne.
[15] Gabriele Neri, Caricature architettoniche. Satira e critica del progetto moderno, Quodlibet, Macerata 2015.
[16] “L’edificio che esemplifica tali norme occupa un terreno rettangolare, di sei metri per diciotto scarsi. Ciascuna delle sei porte che occupano la facciata del piano terreno comunica, con un intervallo di novanta centimetri, con un’altra porta uguale a un solo battente, e così successivamente, fino a giungere a un totale di sedici porte. Sobri tramezzi laterali dividono i sei sistemi paralleli così formati, i quali contano complessivamente centodue porte. Dai balconi della casa dirimpetto, lo studioso può vedere che il primo piano abbonda di scale di sei gradini che salgono e scendono a zigzag; il secondo è formato esclusivamente di finestre; il terzo, di soglie; il quarto e ultimo, di pavimenti e soffitti. L’edificio è di vetro, particolare che, dalle case vicine, facilita non poco l’esame. Così è perfetta la gemma, che nessuno ha osato imitarla. Grosso modo abbiamo tratteggiato fin qui lo svolgimento morfologico degli inabitabili, dense e rinfrescanti raffiche d’arte che non piegano il capo al menomo utilitarismo: nessuno vi entra, nessuno vi si stende, nessuno vi si siede sulle calcagna; nessuno s’insinua nelle concavità, nessuno saluta con la mano dall’impraticabile balcone, nessuno agita il fazzoletto, nessuno vi si getta di sotto. Là tout n’est qu’ordre et beauté.” Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Cronicas de Bustos Domecq, Editorial Losada, Buenos Aires 1967, trad. it. di Francesco Tentori Montalto, Cronache di Bustos Domecq, Einaudi, Torino 1975, p. 51.
[17] Arthur C. Danto, The Transfiguration of the Commonplace. A Philosophy of Art, Harvard University Press, Cambridge, Mass. e London, 1981.
[18] Through the Looking-Glass, and What Alice Found There (1871) è il sequel di Alice’s Adventures in Wonderland (1865) scritto da Lewis Carroll. Oltre lo specchio in cui entra Alice c’è un mondo dalla logica ribaltata, dove frammenti di realtà e di linguaggio vengono ricombinati a generare nonsense oppure a far riflettere sui loro meccanismi abituali. Questa è la prima strofa della celebre poesia Jabberwocky in esso contenuta, piena di parole inventate attraverso il montaggio di parti conosciute:
“Twas brillig, and the slithy toves/ Did gyre and gimble in the wabe;/ All mimsy were the borogoves,/ And the mome raths outgrabe.”
È per esempio stata così tradotta da Adriana Crespi nel 1974 ne Il Ciarlestrone:“Era brillosto, e gli alacridi tossi / succhiellavano scabbi nel pantúle:/ Méstili eran tutti i paparossi,/e strombavan musando i tartarocchi.”
Titolo: Case Milanesissime. Piante dell’abitare del XXI secolo
Autore: Alvar Aaltissimo
Con un saggio di Cino Zucchi
Casa editrice: Corraini Edizioni
Pagine: 120
Anno di pubblicazione: 2021