Oscar 2024: tre film (più uno) per appassionati di design

salonemilano, poor things

Emma Stone in POOR THINGS. Photo by Atsushi Nishijima. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 

Quattro film e quattro immaginari disparati - il Giappone zen, l'Europa inizio Novecento, la Califonia modernista, la frontiera western - sono esempi diversi di design, set decor e location al servizio di differenti poetiche filmiche

Perfect Days, regia di Wim Wenders

Come rispecchiando la trama, tutto nasce da una banale commissione che prende una strada inattesa e porta a un film splendido, amatissimo e pluripremiato, nominato all'Oscar tra i film non anglofoni. La municipalità di Tokyo chiese a Wim Wenders alcuni cortometraggi per promuovere l'utilizzo, ancora scarso per ragioni culturali, delle avveniristiche nuove toilette pubbliche disegnate da sedici diverse archistar e Wenders, antico frequentatore amoroso del Giappone e del suo cinema, intuisce di poter trarre un lungometraggio. I bagni pubblici di Tokyo sono capolavori di design e interpretazione della funzione. Kengo Kuma ha creato un mini-villaggio di cinque capanne in legno; Shigeru Ban un sistema di opacizzazione che entra in funzione a bagno occupato, permettendo in precedenza di verificarne la pulizia nella piena trasparenza; Toyo Ito li ha immaginati come funghi, lo studio Wonderwall come blocchi di cemento che rimandano agli insediamenti neolitici. Infine Tadao Ando ha immaginato un portico di cemento che invoglia all'ingresso e comunica un'istanza democratica. È tra questi gioielli di architettura funzionale che si svolge la vita diurna di Hirayama (Koji Yakusho, doverosamente premiato a Cannes), impiegato come toilet cleaner per il consorzio TTT (The Tokyo Toilet project), realmente esistente. La sua vita appare regolare, monotona e vuota. Tuttavia il vuoto è elemento centrale della filosofia zen tramite l'ideogramma mu che sta a indicare l'accettazione della vita, la sospensione del giudizio. Hirayama vive di sottrazioni (la sua casa minimalista), ripetizioni (le musicassette classic rock ascoltate andando e tornando dal lavoro) e variabili (gli incontri con persone, alberi, tramonti che incendiano l'apparente monotonia). Lo splendido finale chapliniano in close up afferma come il senso, l'intensità dell'esistere non sia attorno - si parla pochissimo nel film - ma nel semplice "esserci". 

Povere creature!, regia di Yorgos Lanthimos

La fantasmagoria di Yorgos Lanthimos a proposito di una "Frankenstein donna", tratta dal romanzo di Alasdair Gray, passa dal Leone d'oro a Venezia all'incetta di nomination dall'Academy Awards. È un film che fa della grandeur e magniloquenza visiva, delle trovate (come gli alberi rossi a rimandare all'interno dei polmoni e al sistema circolatorio) un elemento sostanziale e quindi affida un ruolo nodale a ambienti, location e alla scenografia firmata da James Price e Shona Heath, candidati e favoriti per l'Oscar. "Povere creature!" è innanzitutto una fantasmagoria spaziale che si muove tra Londra, Lisbona, Alessandria e una Parigi dagli interni ed esterni art nouveau. Ci sono anche invenzioni anacronistiche per gli anni Trenta come l'ispirazione brutalista e il cemento a vista della sala operatoria. È inoltre un caso di scuola di set design che non si limita al ruolo decorativo o illustrativo ma è determinante nel veicolare il senso. La nave segue l'immagine dell'animale in gabbia perché, come spiega lo stesso Price, "il grande pavimento di marmo mostra una tigre che uccide una capra e si vedono animali in gabbia nell'inquadratura (...) I candelabri sono assurdamente grandi per comunicare un senso di claustrofobia". La sensazione di assurdo e uncanny sostanziale al film passa inoltre dall'inserimento di elementi fuori serie e fuori scala come la sedia enorme e le lampade di tipo industriale all'interno della sala di pranzo altrimenti arredata in impeccabile stile inglese. 

Barbie, regia di Greta Gerwig

Mattel non bada a spese quando affida a Greta Gerwig l'operazione di rebranding della bambola più celebre di sempre ad uso di un'epoca in cui plastica e patriarcato hanno decisamente perso appeal. La produzione ha il gigantismo della Hollywood classica - gira la voce (falsa) che abbia esaurito le scorte mondiali di vernice rosa - e il marketing è una macchina da guerra implacabile. Poi si può insinuare che la montagna abbia partorito un topolino di film se il tono farsesco si accompagna a una drammaturgia con lo spessore di un doomscrolling e il didascalismo resta costantemente oltre il livello di guardia. Conviene allora concentrarsi sull'eccellente lavoro di traduzione in scenografia dell'oggetto "casa di Barbie" da parte della scenografa Sarah Greenwood e della set decorator Katie Spencer. Oltre gli accorgimenti tecnici come ridurre le proporzioni delle case del 23% perché i protagonisti appaiano fuori scala e le ispirazioni artistiche (le piscine tutte superficie rimandano ovviamente a David Hockney), Barbieland ricorda le città ideali del consumismo californiane come Palm Springs e le scenografie irreali, metafisiche dell'age d'or hollywodiana, le Venezie simboliche ricostruite in studio e rappresentate da una piscina per far da fondale a Fred Astaire. Inoltre le dreamhouse discendono direttamente dalla grande matrice dell'architettura modernista californiana, la Kaufmann House di Richard Neutra (1946) sempre a Palm Springs, risultandone una estremizzazione per la rimozione totale di muri e porte. Il mondo altro che ha abolito l'organico dove si svolge la "life in plastic" trova antecedenti formali e ideologici in passate utopie americane tutte artificiali. 

Strange Way of Life, regia di Pedro Almodóvar

Escluso a sorpresa dai cortometraggi candidati, l'ultimo Almodovar riprende dal capolavoro "Dolor y Gloria" il tema meno percorso al cinema dell'amore maturo omosessuale per declinarlo dentro un divertissement di genere: il western. Si tratta di un west ricostruito, come fecero Sergio Leone e gli altri spaghetti, nel sud della Spagna oltre che di un west (una frontiera USA - Messico) non naturalista ma d'autore, totalmente personale. Ecco quindi che Almodovar si affida a Anthony Vaccarello e alla maison Yves Saint Laurent per la produzione e i costumi e preferisce, per la scenografia, l'immaginario al mero realismo arredando i ranch a colori sgargianti e camp, con lenzuola ricamate e dipinti di Georgia O'Keefe. L'opera di esplicitazione della queerness latente nel western classico passa anche e specialmente dal decor d'interni.