L’Italia di Ron Arad fra pezzi unici e piattaforme sperimentali

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Ron Arad, “Strings, Love Songs and a Red Car”, photo courtesy Ron Arad and Associates Ltd, London, UK and Gordon Gallery, Tel Aviv, Israel

Da Sottsass e Castiglioni ai progetti con Moroso e Qeeboo. La curiosità è il motore del designer israeliano, che spazia fra aste record e smart working, in cerca di novità di cui essere geloso

È un vulcano. Nonostante l’aspetto elegante e posato, e lo schermo che ci separa, è una personalità vulcanica che più parla, più dimostra di avere una curiosità innata, che muove ogni sua creazione, di saper tener insieme gli incontri con Achille Castiglioni ed Ettore Sottsass e la distruzione creativa di automobili in pandemia. Ron Arad è un designer, un architetto, un artista per cui business is a necessary evil, perché senza non si può creare, ma dare forma alla creatività solo per denaro è qualcosa che proprio non gli appartiene. La nostra conversazione parte dal capire come sta cambiando il mondo dell’arredo dopo due anni di pandemia, ma torna indietro di decenni, a quando gli eventi di design organizzati a Milano erano qualcosa di molto out of the box.

È considerato uno dei più importanti designer al mondo: cosa significa, per lei, oggi il termine arredo?

Innanzitutto, bisogna valutare due elementi che sono separati, ma correlati: gli studio pieces, i pezzi unici che hanno molto più a che fare con il mercato dell’arte che con il furniture domestico, e i prodotti di industrial design. Agli inizi degli anni Ottanta, le aziende italiane cominciano a essere presenti a Londra, perché la città è uno status symbol, anche se non ancora un grande mercato. C’erano numerose scuole di design, ma mancavano interessanti opportunità lavorative, per questo io stesso ho iniziato la mia carriera legandomi strettamente all’Italia. A parte Vitra, ho lavorato spessissimo con brand e aziende italiane. Agli inizi della mia carriera, un grande sponsor fu Kartell: facevo pezzi di art design che non credevo sarebbero diventati money maker, eppure, per molto tempo, la libreria Bookworm fu uno dei prodotti più venduti di Kartell, ne realizzarono una quantità, in lunghezza, più estesa della stessa Italia! Il mio primo studio aveva un nome che indicava il senso del mio lavoro: One Off. Mi chiedevo: se faccio una cosa, che senso ha ripeterla? Perché farla in serie? Ero arrogante, ho imparato successivamente la gioia, il piacere, il modo diverso di vedere della produzione di massa. Perché ci sono criteri di produzione differenti. 

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Ron Arad, ph. Asa Bruno

Com’è cambiato il settore dopo la pandemia?

Non so cosa accade fuori, vivo e creo in casa, compro online, non partecipo alle fiere, né leggo le mail, ma è sicuramente cambiato il mondo. Personalmente, in questi anni di pandemia, ho assistito a qualcosa di incredibile: un prototipo di divano su cui ho lavorato nel 1993/94, D-Sofa, che era già stato messo all’asta da Phillips a circa 230mila euro, è stato venduto, sempre da Phillips, a Londra lo scorso giugno, a 1,4 milioni di euro. L’ho guardato in diretta live: era fantascienza! Cosa ci dice? Non lo so. Non è un buon esempio, perché non è l’acquisto che può fare una famiglia. Attualmente sto lavorando con un’azienda italiana per trasformalo in qualcosa di accessibile. 

Quali sono i suoi altri progetti in corso?

Con Patrizia Moroso – io e lei ne siamo i direttori creativi – abbiamo lanciato More-So, una piattaforma sperimentale, dove i creativi sono liberi di esprimersi senza dover pensare ai processi produttivi o alle regole del mercato. Moroso è un’azienda che ha nel suo dna cultura, capacità di visione e saper fare. Sto anche lavorando con una realtà nel campo dell’illuminazione, con Guzzini e con Qeeboo. Mi piace l’approccio di Stefano Giovannoni: siamo impegnati su un progetto che verrà svelato al Salone del Mobile, siamo contenti che sia stato spostato a giugno così abbiamo più tempo e possiamo creare di più. Da poco, ho annunciato una nuova collaborazione con una compagnia di eyewear italiana.

Cosa si aspetta dalla nuova edizione del Salone del Mobile?

Ho assistito alla nascita del mondo che ruotava intorno al Salone del Mobile a metà anni Ottanta: c’erano molti meno eventi, ma vi partecipavano realtà come Memphis, Alchimia, era emozionante, perché era davvero un circuito alternativo, mi sentivo a mio agio. Ho avuto l’opportunità di conoscere Sottsass, Castiglioni, Branzi, era bello poter stare tutti insieme, essere accolti anche se giovani. Spero che, quest’anno, ci sia una grande partecipazione e che le persone possano essere presenti, perché c’è voglia di viaggiare e di fare esperienze. Per chi produce e presenta nuovi prodotti, il Salone è un appuntamento immancabile. Per lungo tempo è stato un appuntamento fisso nel mio calendario, in compagnia di Ingo Maurer ci divertivamo a girare Milano, dallo spazio Krizia al cinema Dolce & Gabbana, lavoravamo tutto l’anno per mostrare qualcosa l’anno successivo. Probabilmente è ancora così per i nuovi designer e per i giovani, anche se credo che qualcosa sia cambiato, è diventato più mainstream e meno accessibile per gli outsider. 

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Ron Arad, “Strings, Love Songs and a Red Car”, photo courtesy Ron Arad and Associates Ltd, London, UK and Gordon Gallery, Tel Aviv, Israel

Qual è il suo rapporto con l’Italia?

Sono contento di essermi trovato qui: se disegni un cucchiaio in Italia, sai a chi rifarti per proporlo, sai che ci sono realtà che della creatività fanno tesoro. C’è una grande cultura artigianale e del saper fare in Italia. Gli artigiani sono fantastici. C’è stato un periodo in cui vedendo un prototipo, capivi chi l’aveva fatto, ad esempio Giovanni Sacchi. Mi piace molto lavorare con Venini, mi sono divertito con la Fiat 500 di Dante Giacosa e ora sono entusiasta della collezione realizzata in Senegal, con artigiani africani, da Moroso: è un’operazione italiana che apprezzo. 

Ha lavorato praticamente in ogni ambito: qual è il fil rouge della sua creatività?

La mia curiosità personale. Non mi interessa solo lo styling di un progetto o di un prodotto da realizzare, sia esso un’architettura minimalista, il divano su cui sono seduto, un paio di occhiali. Mi pongo sempre la domanda: e se facessi questo? È la mia curiosità a spingermi, non una sollecitazione industriale, certo è una fortuna che la mia curiosità possa trovare un riscontro esterno. 

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Ron Arad, Now What chair, photo courtesy Ron Arad and Associates Ltd, London, UK

Come ha trascorso il periodo della pandemia?

Ho passato gran parte del mio tempo su Zoom su questo divano a creare a distanza. Dopo aver lavorato a Now What, la sedia composta di ritagli di giornali che sono stati pubblicati venerdì 31 gennaio 2020, il giorno in cui la Gran Bretagna ha lasciato l’Unione Europea, ho creato Love Songs, una serie di sculture che riflettono fra loro le singole lettere in un gioco prospettico e palindromo. Sono tutte uguali nella struttura, ma diverse nella realizzazione, alcune sono in acciaio, altre sono legate a canzoni di Leonard Cohen, Elvis Presley, The Beatles, Coltrane, Velvet Underground, altre ancora sono realizzate da un pezzo intero di marmo che mi ha fornito un’azienda di Verona. Poi ho comprato una Mercedes online e ci ha lavorato sopra, ne ho supervisionato virtualmente la distruzione: è stata in mostra alla Gordon Gallery e ora è da qualche parte in un hotel.

Secondo lei, quali saranno i trend del prossimo futuro?

Ci sarà sempre più spazio per l’intelligenza artificiale, è un tema che mi appassiona, ma per ora i risultati sono piuttosto deludenti, è tutto computer game, virtual architecture e metaverso. Mi aspetto di vedere cose che all’inizio non capisco, che stimolino la mia curiosità e di cui essere geloso. Uno dei miei highlight è stato spiegare ad Achille Castiglioni cosa fosse il rapid prototyping, è stato incredibile, una gioia mia e sua. Ogni giorno qualcuno mi chiama per fare un NFT, ma, a oggi, non sono riusciti a propormi progetti appassionanti. 

28 marzo 2022